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Le correnti forti che tengono giù i tassi

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Global view

Le correnti forti che tengono giù i tassi

Perché i tassi di interesse sono tanto bassi? La risposta migliore è che i Paesi avanzati sono ancora in una «depressione amministrata»: è una malattia profonda e non finirà tanto presto. I tassi di interesse sui titoli «sicuri» nelle principali aree valutarie ad alto reddito (gli Stati Uniti, l'Eurozona, il Giappone e il Regno Unito) sono eccezionalmente bassi sotto tre differenti aspetti: in primo luogo, i tassi di riferimento a breve termine delle Banche centrali sono allo 0,5 per cento o ancor meno; in secondo luogo, i rendimenti sui titoli di Stato convenzionali a lungo termine sono a livelli bassissimo: il Bund tedesco a trent'anni rende lo 0,7 per cento, il corrispettivo giapponese l'1,5 circa, quello britannico il 2,4 e quello americano il 2,6; in terzo luogo, i tassi di interesse reali a lungo termine sono irrisori: i titoli di Stato decennali indicizzati emessi dal Tesoro britannico rendono un -0,7 per cento, i corrispettivi americani di più, ma appena uno 0,4 per cento.

Se dieci anni fa avreste detto alla gente che oggi la situazione sarebbe stata così, quasi tutti vi avrebbero presi per matti. Avreste potuto aver ragione solo se la domanda, la produzione e l'inflazione fossero state tutte e tre in profonda depressione (e senza prospettive immediate di un'inversione di tendenza). In effetti, il fatto che i massicci programmi di stimolo monetario abbiano prodotto risultati tanto modesti per quanto riguarda la produzione e l'inflazione fa capire fino a che punto siano deboli le economie in questo momento.

Oggi però si sente qualcuno che propone una spiegazione differente per il bassissimo livello dei tassi di interesse: la colpa sarebbe della politica monetaria e in particolare dell'allentamento quantitativo, l'acquisto di titoli a lungo termine da parte delle Banche centrali. È uno «stampar moneta» giudicato particolarmente irresponsabile. Come sostiene Ben Broadbent, vicegovernatore della Banca d'Inghilterra, è una critica che ha poco senso. Se la politica monetaria fosse irresponsabilmente espansiva da almeno sei anni (o addirittura dai primi anni 2000, come sostiene qualcuno), di sicuro avremmo assistito a un'esplosione dei prezzi, o quantomeno a un innalzamento delle aspettative di inflazione. Inoltre, le Banche centrali non hanno la capacità di fissare i tassi a lungo termine a qualsiasi livello desiderino. Un'analisi empirica dell'impatto dell'allentamento quantitativo indica che potrebbe aver fato scendere i rendimenti dei titoli obbligazionari di qualcosa come un punto percentuale, ma è da osservare che i rendimenti sono rimasti estremamente bassi anche dopo che le Banche centrali, prima nel Regno Unito e ora negli Stati Uniti, hanno messo fine all'allentamento quantitativo.

Il livello dei prezzi è la variabile economica che la politica monetaria influenza più efficacemente. I banchieri centrali non possono determinare il livello delle variabili reali, come la produzione, l'occupazione o anche i tassi di interesse reali (che misurano il rendimento di un attività corretto per l'inflazione). Vale in particolare sul lungo periodo, eppure il declino dei tassi di interesse reali è cominciato parecchio tempo fa: prendendo come parametro i titoli di Stato indicizzati, osserviamo che sono scesi dal 4 per cento circa prima del 1997 al 2 per cento circa tra il 1999 (dopo la crisi finanziaria asiatica) e il 2007, per poi scendere ulteriormente verso lo zero (dopo la crisi finanziaria occidentale).

C'è una spiegazione più convincente del livello estremamente basso dei tassi di interesse, ed è che è sceso il tasso di interesse reale di equilibrio (in parole povere, il tasso a cui domanda e offerta potenziale coincidono, nell'economia in generale) e le Banche centrali hanno risposto tagliando i tassi nominali, che sono sotto il loro controllo. Lawrence Summers, ex segretario al Tesoro americano, ha trovato una definizione per questo: la «stagnazione secolare», con cui si intende una tendenza verso una situazione di carenza cronica della domanda. La spiegazione più plausibile risiede in un eccesso di risparmio e una scarsità di progetti di investimento validi, il tutto accompagnato dall'aumento prima della crisi degli squilibri globali della bilancia delle partite correnti e dall'accumulo post-crisi di tensioni finanziarie e debiti inesigibili. I boom del credito privato a cui assistevamo prima della crisi erano il modo con cui le Banche centrali cercavano di sostenere la domanda in un mondo dove la domanda scarseggiava. Senza quei boom, avremmo assistito prima a qualcosa di simile al malessere odierno.

Dal momento in cui è scoppiata la crisi, le Banche centrali non hanno più potuto scegliere come agire, le loro mosse erano obbligate. Un esempio particolarmente istruttivo è quanto successo nell'Eurozona. All'inizio del 2011 la Banca centrale europea alzò il tasso di riferimento dall'1 all'1,5 per cento: una mossa clamorosamente inappropriata, e alla fine la Bce ha dovuto tagliare di nuovo i tassi e avviare le misure di allentamento quantitativo. Se le Banche centrali vogliono esercitare un ruolo stabilizzatore, devono giocoforza muovere i tassi di interesse in una direzione che produca equilibrio, e questa direzione non è qualcosa che possano scegliere.

La crescita dell'avversione al rischio potrebbe essere un altro dei motivi del calo dei tassi di interesse sui titoli sicuri. L'idea è che le crisi abbiano reso maggiormente attraenti le attività più sicure e più liquide. Questo spiega in parte i rendimenti bassissimi dei Bund tedeschi, ma per quanto riguarda il lungo termine non sembra la spiegazione principale: il divario fra il tasso di interesse sui titoli di Stato e le obbligazioni societarie in America, per esempio, non è mai stato così sistematicamente ampio dall'inizio della crisi. Le Banche centrali non sono i deus ex machina dell'economia mondiale, sono piuttosto delle scimmie che corrono su un tapis roulant: riescono a bilanciare domanda e offerta potenziale nei Paesi ad alto reddito solo adottando politiche ultra-espansive, che producono conseguenze destabilizzanti più avanti.

Quando assisteremo a un rialzo duraturo dei tassi di interesse reali e nominali? Per questo servirebbe un rafforzamento netto degli investimenti, un calo netto dei risparmi e una riduzione netta dell'avversione al rischio, tutte cose improbabili nel prossimo futuro. La Cina sta rallentando, e questo probabilmente deprimerà ancora di più i tassi di interesse. Anche molte economie emergenti si stanno indebolendo. La ripresa negli Stati Uniti difficilmente potrà sostenere tassi significativamente più alti, specie considerando la forza attuale del dollaro. Inoltre, in molte economie l'indebitamento rimane elevato.
I tassi di interesse bassissimi non sono un complotto dei banchieri centrali. Sono una conseguenza delle forze recessive all'opera nell'economia mondiale. Se da un lato sembra inevitabile che prima o poi i tassi si alzeranno rispetto ai livelli attuali, dall'altro è probabile che questi minimi storici rimarranno con noi ancora a lungo. Quelli che scommettono su balzi in avanti dell'inflazione e una Caporetto dei mercati obbligazionari continueranno a restare scornati. La depressione è stata contenuta, ma sempre depressione resta.

© The Financial Times Ltd 2015

(Traduzione di Fabio Galimberti)

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