A metà dicembre le Nazioni Unite presenteranno l'ultima edizione del Rapporto annuale sullo sviluppo umano, che quest'anno s'incentra sulla natura del lavoro, ovvero su come il modo in cui ci guadagniamo da vivere si sta trasformando per effetto della globalizzazione economica, delle nuove tecnologie e delle innovazioni nell'ambito dell'organizzazione sociale. La prospettiva dei paesi in via di sviluppo, in particolare, si presenta decisamente contrastante.
Per la maggior parte delle persone, il più delle volte, il lavoro è quasi sempre sgradevole. Tradizionalmente, è attraverso un carico massacrante di lavoro che alcuni paesi hanno raggiunto la ricchezza, ed è grazie alla ricchezza che alcune persone riescono ad avere l'opportunità di fare un lavoro più piacevole.
Grazie alla Rivoluzione industriale, l'applicazione di nuove tecnologie alla produzione tessile, al ferro, all'acciaio e ai trasporti determinò per la prima volta nella storia un incremento costante dei livelli di produttività del lavoro. Dapprima in Gran Bretagna a metà del diciottesimo secolo, poi nell'Europa occidentale e in Nord America, uomini e donne abbandonarono i campi per riversarsi nelle città e soddisfare la crescente domanda di manodopera delle fabbriche.
Per decenni, però, i lavoratori beneficiarono assai poco dell'aumento della produttività. Lavoravano molte ore al giorno in condizioni soffocanti, vivevano in dimore sovraffollate e malsane, e vedevano crescere a stento i propri guadagni. Alcuni indicatori, come l'altezza media degli operai, suggeriscono che potrebbe esserci stato addirittura un peggioramento degli standard di vita per un certo periodo.
Alla fine, il capitalismo subì una trasformazione e i suoi vantaggi cominciarono a essere ripartiti più ampiamente. In parte ciò dipese dal fatto che i salari iniziarono ad aumentare nel momento in cui si esaurì il surplus di lavoratori rurali. Altrettanto importante, però, fu il fatto che i lavoratori si organizzarono tra loro per difendere i propri interessi. Temendo una rivoluzione, i padroni delle fabbriche giunsero a un compromesso e i diritti civili e politici vennero estesi alla classe lavoratrice.
La democrazia, a sua volta, impose ulteriori freni al capitalismo. Le condizioni di lavoro migliorarono nel momento in cui, grazie a decreti statali o accordi negoziati, si giunse a una riduzione dell'orario di lavoro, una maggiore sicurezza e vari tipi tipi di sussidi, ad esempio familiari e sanitari. Investimenti pubblici nel campo dell'istruzione e della formazione resero i lavoratori più produttivi da un lato e più liberi di scegliere dall'altro.
Di conseguenza, vi fu un aumento della quota del surplus dell'impresa detenuta dai lavoratori. Mentre il lavoro in fabbrica non divenne mai piacevole, ora i lavori impiegatizi consentivano un tenore di vita borghese, con tutte le possibilità di consumo e di stile di vita che ne derivavano.
Alla fine, il progresso tecnologico indebolì il capitalismo industriale. La produttività del lavoro nelle industrie manifatturiere aumentò molto più rapidamente rispetto al resto dell'economia: la stessa o una quantità maggiore di acciaio, automobili e componenti elettronici poteva essere ormai prodotta con molti meno operai. Fu così che i lavoratori “in eccesso” s'indirizzarono verso le industrie dei servizi quali, ad esempio, istruzione, sanità, finanza, svago e pubblica amministrazione. Ciò segnò la nascita dell'economia post-industriale.
Il lavoro divenne più piacevole per alcuni, ma non per tutti. A coloro che erano dotati delle capacità, dei capitali e della scaltrezza necessari per prosperare nell'era post-industriale, i servizi offrirono opportunità immense. Banchieri, consulenti e ingegneri ricevevano stipendi molto più elevati di quelli dei loro antenati del periodo industriale.
Altrettanto importante è che il lavoro d'ufficio offrì un grado di libertà e autonomia personale che il lavoro in fabbrica non aveva mai permesso. Malgrado il lungo orario di lavoro (forse più lungo di quello delle fabbriche), i professionisti dei servizi godevano di un controllo molto maggiore sulla propria vita quotidiana e sulle decisioni sul posto di lavoro. Insegnanti, infermieri e camerieri, pur non essendo pagati altrettanto bene, si ritrovarono anch'essi svincolati dal noioso tran tran meccanico dell'officina.
Per i lavoratori meno qualificati, tuttavia, lavorare nel settore dei servizi significò la rinuncia ai benefici consolidati del capitalismo industriale. La transizione verso un'economia di servizi spesso è andata a braccetto con il declino dei sindacati, delle tutele del lavoro e delle norme di equità salariale, indebolendo profondamente il potere contrattuale dei lavoratori e la sicurezza del posto di lavoro.
Pertanto, l'economia post-industriale scavò un nuovo divario nel mercato del lavoro tra chi aveva un lavoro stabile, ben pagato e gratificante nel settore dei servizi e chi aveva un lavoro instabile, mal pagato e frustrante. Il rapporto proporzionale tra le due realtà, e quindi la misura della disuguaglianza prodotta dalla transizione post-industriale, era determinato da due fattori: il livello d'istruzione e di specializzazione della forza lavoro, e il grado d'istituzionalizzazione dei mercati del lavoro nei servizi (in aggiunta all'industria manifatturiera).
Disuguaglianza, esclusione e contrasto divennero più netti nei paesi in cui le competenze erano distribuite in modo disomogeneo e molti servizi ricordavano l'“ideale” classico dei mercati spot. Gli Stati Uniti, dove molti lavoratori sono costretti a portare avanti più lavori per guadagnarsi da vivere, restano l'esempio canonico di questo modello.
La maggioranza dei lavoratori vive ancora in paesi a basso e medio reddito e deve ancora sperimentare queste trasformazioni. Vi sono due ragioni per credere che il loro percorso futuro non si svolgerà, o non dovrà necessariamente svolgersi, nello stesso identico modo.
Innanzitutto, non vi è motivo per cui condizioni di lavoro sicure, libertà di associazione e contrattazione collettiva non possano essere introdotte in una fase dello sviluppo più precoce rispetto al passato. Proprio come la democrazia politica non deve attendere l'aumento dei redditi per affermarsi, una solida normativa sul lavoro non dovrebbe restare indietro rispetto allo sviluppo economico. I lavoratori dei paesi a basso reddito non dovrebbero essere privati di diritti fondamentali in nome dello sviluppo industriale e della performance dell'export.
In secondo luogo, le forze della globalizzazione e del progresso tecnologico si sono intrecciate per alterare la natura del lavoro manifatturiero in un modo che rende molto difficile, se non impossibile, per i nuovi arrivati emulare il processo di industrializzazione delle quattro tigri asiatiche, o delle economie europea e nordamericana prima di loro. Molti paesi in via di sviluppo, se non la maggior parte, stanno diventando economie di servizi senza aver prima sviluppato un ampio settore manifatturiero, un processo che ho definito “deindustrializzazione prematura”.
Una deindustrializzazione prematura può essere una benedizione sotto false spoglie, che consente ai lavoratori del mondo in via di sviluppo di bypassare il faticoso passaggio del lavoro manifatturiero?
Se così fosse, non è affatto chiaro come un futuro del genere potrebbe arrivare a costruirsi. Una società in cui la maggioranza dei lavoratori sia padrona di se stessa – negozianti, liberi professionisti o artisti – e stabilisca le proprie condizioni di lavoro al tempo stesso guadagnando abbastanza per vivere dignitosamente è concepibile sono quando la produttività a livello economico è già molto elevata. I servizi ad alta produttività, come l'informatica o la finanza, richiedono lavoratori altamente qualificati, non i lavoratori generici che abbondano nei paesi poveri.
Dunque, riguardo al futuro del lavoro nei paesi in via di sviluppo le notizie sono sia buone che cattive. Grazie alle politiche sociali e alle leggi sul lavoro, i lavoratori hanno la possibilità di diventare attori pienamente coinvolti nell'economia in una fase molto più precoce del processo di sviluppo. Allo stesso tempo, il tradizionale motore dello sviluppo economico, cioè l'industrializzazione, è destinato a funzionare a regime assai ridotto. La combinazione tra elevate aspettative pubbliche e bassa capacità di produzione del reddito che ne deriva rappresenterà una sfida importante per le economie in via di sviluppo in tutto il mondo.
Traduzione di Federica Frasca
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