Voglio proporre un esperimento mentale che chiarisce le idee sulle sfide che si trovano ad affrontare i responsabili della politica macroeconomica negli Stati Uniti e nel resto del mondo industrializzato.
Immaginiamo che nel giro di poco tempo le aspettative di inflazione in tutti i Paesi sviluppati, ricavate dai mercati delle obbligazioni indicizzate o dagli swap sull'inflazione, salgano di quasi 50 punti base, a un livello nettamente superiore all'obbiettivo del 2 per cento, e con prospettive di incrementi ulteriori in futuro.
Immaginiamo che contemporaneamente le misurazioni delle aspettative di inflazione basate sulle indagini, come quelle calcolate dall'Università del Michigan e dalla Federal Reserve di New York negli Stati Uniti, stiano aumentando in modo marcato.
Immaginiamo anche che i prezzi delle materie prime abbiano un'impennata e il dollaro subisca un deprezzamento di quelli che si vedono una volta ogni 15 anni.
Immaginiamo che la stima dei mercati sulla politica monetaria futura negli Stati Uniti sia molto più rigida delle proiezioni della Federal Reserve stessa.
Immaginiamo che i dati sulla crescita del prodotto interno lordo abbiano un'accelerazione, con segnali crescenti di un boom mondiale.
Immaginiamo anche che non sia in corso nessuno sforzo serio per ridurre i disavanzi.
Supponiamo infine che le autorità non abbiano intenzione di modificare il quadro di politiche corrente, perché i modelli fondati sulla curva di Phillips indicano che l'inflazione nel tempo torna verso il tasso obbiettivo, per effetto della presunta relazione tra disoccupazione e aumenti dei prezzi.
In questa ipotetica circostanza, quasi certamente i timori sarebbero diffusi, perché sarebbe evidente che le politiche non sono al passo con la situazione corrente. Molti avrebbero paura per i seri rischi connessi al «disancoraggio» delle aspettative di inflazione e invocherebbero una serie di correttivi.
Il punto fondamentale è che consentire non solo un incremento temporaneo dell'inflazione, ma un passaggio ad aspettative dell'inflazione al di sopra dell'obbiettivo potrebbe comportare costi elevati.
Al momento viviamo in un mondo che è l'immagine speculare dello scenario ipotetico che abbiamo appena descritto. Le misurazioni delle aspettative di inflazione basate sul mercato stanno colando a picco e secondo il parametro di inflazione preferito dalla Fed siamo ormai attestati su un range dell'1-1,25 per cento per il prossimo decennio.
In Europa e in Giappone, le aspettative di inflazione sono ancora più basse. Le misure basate sulle indagini evidenziano cali marcati negli ultimi mesi. I prezzi delle materie prime sono ai livelli minimi degli ultimi decenni e solo in altre due occasioni, negli ultimi quarant'anni (periodo in cui la moneta statunitense ha registrato oscillazioni considerevoli), il dollaro è cresciuto tanto come negli ultimi 18 mesi.
Le previsioni più recenti della Fed comportano un aumento dei tassi di interesse di quasi il 2 per cento nei prossimi due anni, mentre il mercato pronostica un incremento di appena lo 0,5 per cento circa.
La maggior parte delle proiezioni indica una crescita economica negli Stati Uniti di appena l'1,5 per cento circa nei sei mesi compresi fra lo scorso ottobre e marzo. E la Fed prefigura un ritorno al suo obbiettivo di inflazione del 2 per cento sulla base di modelli che la maggior parte degli osservatori esterni trova poco convincenti.
Nonostante l'apparente simmetria, il clima attuale non assomiglia in nulla a quello ipotizzato nel mio esempio.
Anche se indubbiamente c'è forte preoccupazione per la situazione macroeconomica, a giudicare dalla riunione del G20 a Shanghai la settimana scorsa, nulla sembra indicare che le autorità siano decise a prendere misure aggressive per ricostruire la loro credibilità di fronte ad aspettative di inflazione che rimangono al di sotto dell'obbiettivo.
In un mondo che al primo shock negativo potrebbe precipitare in una recessione globale, non è stata concordata in pratica nessuna misura tesa a stimolare la domanda. I banchieri centrali hanno trasmesso l'impressione che ormai c'è relativamente poco che possano fare per rafforzare la crescita, o anche semplicemente per aumentare l'inflazione.
A rafforzare il messaggio ha contributo la reazione fortemente negativa dei mercati alla decisione del Giappone di passare a tassi di interesse negativi. Non sono in vista neanche annunci rilevanti riguardo a misure non monetarie per stimolare la crescita o un ritorno all'obbiettivo di inflazione.
Probabilmente non c'è ragione di stupirsi. Negli anni 70 le autorità ci misero anni per capire quant'erano lontane dall'obbiettivo di inflazione e operare aggiustamenti seri delle politiche economiche.
All'epoca continuavano a preoccuparsi di una presunta insufficienza della domanda quando ormai aveva cessato da parecchio tempo di essere un problema rilevante. I primi tentativi per contenere l'inflazione furono troppo timidi per essere efficaci, e i risultati arrivarono solo quando furono applicate misure molto decise. Un passaggio cruciale fu quando venne abbandonata l'idea che il problema fosse di natura strutturale, invece che una situazione originate dalle politiche macroeconomiche.
I rischi odierni – un'inflazione bassa cronica che rischia di degenerare in deflazione e una stagnazione secolare della crescita del Pil – sono gravi almeno quanto lo era il problema di inflazione degli anni 70. E anche in questo caso per risolverli bisognerà cambiare l'intera impostazione delle politiche.
Con ogni probabilità, gli elementi chiave saranno un'espansione della spesa pubblica che sfrutti le opportunità create dai tassi bassissimi e, in extremis, un'ulteriore sperimentazione di politiche monetarie anticonvenzionali.
L'autore è titolare della cattedra Charles W. Eliot all'Università di Harvard ed ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti
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(Traduzione di Fabio Galimberti)
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