Quarantasei mesi consecutivi senza incappare in una correzione significativa, di quelle del 10% dai massimi più recenti, sono senza dubbio un lasso di tempo molto lungo. Altre due volte soltanto nella storia l'indice S&P 500 di New York è riuscito a protrarre per un periodo maggiore una striscia vincente: negli anni 90 delle meraviglie (allora il rally era durato 84 mesi, cioè 7 anni) e prima della crisi finanziaria del 2008 (55 mesi) che tutti sappiamo come si è conclusa.
Non è detto che gli investitori abbiano davvero preso in considerazione queste statistiche, ma è piuttosto chiaro che negli ultimi tempi il nervosismo sui mercati sta crescendo a vista d'occhio. La bufera greca prima, l'incognita cinese adesso e i timori di un imprevisto rallentamento della crescita globale fanno da corollario a quello che per tutti sarà il vero argomento in grado di spostare gli equilibri: la decisione della Federal Reserve sui tassi di interesse che potrebbe decretare la fine dell'era del «denaro facile».
Per anni la politica ultra-espansiva decisa a Washington così come nelle altre sedi delle principali Banche centrali ha di fatto ucciso la volatilità, soffocandola a suon di denaro elargito a costo zero o quasi attraverso politiche non convenzionali come il quantitative easing. Lo stesso indice S&P 500 ha raggiunto sotto questo aspetto un livello record in questo 2015 che potrebbe precedere la stretta monetaria, visto che negli ultimi sette mesi si è mosso in un corridoio davvero ristretto (appena il 4,3%) fra minimi e massimi: un anno davvero noioso come lamentano i trader più attivi. Non a caso il Vix (o «indice della paura», come spesso viene definito l'indicatore che misura la volatilità attesa a Wall Street) è precipitato dagli oltre 80 punti post crack-Lehman ai poco più di 12 di queste settimane.
Ora che si viaggia inevitabilmente verso una normalizzazione della politica monetaria, indipendentemente dal fatto che la Fed agisca a settembre o a dicembre, è anche da mettere in conto un ritorno a movimenti più accentuati degli indici. Gli inguaribili ottimisti che vedono soltanto rialzi nei monitor di Borsa non devono però necessariamente disperarsi, perché un aumento della volatilità non significa automaticamente che le azioni debbano tornare a scendere. Una statistica di Ubs rileva anzi che negli ultimi 40 anni la Borsa di New York non ha in genere cambiato direzione dopo il primo rialzo della Fed, estendendo invece la striscia vincente per una media di oltre due anni (25 mesi per la precisione) e realizzando in quel lasso di tempo guadagni medi del 33,2 per cento.
Il motivo è evidente, poiché in genere una Banca centrale avvia una manovra restrittiva quando la ripresa viaggia a gonfie vele e si vuole evitare un suo eccessivo surriscaldamento. Le condizioni restano quindi favorevoli a un investimento in Borsa, almeno fino a che il ciclo economico non diventa maturo. Certo, la storia non si ripete automaticamente e ci sono evidenti motivi per affermare che «questa volta è differente», a cominciare dal livello dei tassi da cui si parte, che non è mai stato a zero come al momento. Ma ci sono anche elementi che secondo Ubs lasciano pensare a una fase rialzista destinata a perdurare, non ultimi il fatto che la Fed avrebbe intenzione di mantenere ancora a lungo i tassi a un livello basso e che per riportare su livelli normali il bilancio della Banca centrale Usa gonfiato dal «Qe» potrebbero occorrere anni, anche fino al 2022: lo stop al denaro facile non significa l'automatica chiusura dei rubinetti della liquidità.
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