L’ipotesi di un possibile taglio della produzione petrolifera è tornata a prendere quota ieri, con quella che è stata interpretata come una prima apertura da parte della Russia a collaborare con l’Opec. I sauditi hanno più volte ripetuto di essere disposti a chiudere i rubinetti soltanto se altri produttori, esterni all’Organizzazione degli esportatori di greggio, avessero fatto altrettanto.
Hanno quindi fatto subito il giro del mondo le dichiarazioni del viceministro delle Finanze russo Maxim Oreshkin, riportate dall’agenzia Tass: «Gli attuali prezzi del petrolio potrebbero portare a drastiche e rapide chiusure della produzione nei prossimi mesi».
In precedenza Mosca aveva sempre affermato di non essere in grado di ridurre le estrazioni di greggio, in parte perché non può interferire nelle scelte delle compagnie petrolifere e in parte perché molti dei suoi giacimenti si trovano in aree esposte al gelo, dove frenare l’attività rischierebbe di denneggiare gli impianti.
Martedì il ministro nigeriano del Petrolio Emmanuel Ibe Kachikwu aveva detto che l’Opec si stava attivando per convocare un vertice di emergenza ai primi di marzo, alla luce di discussioni avanzate con Paesi non Opec per un taglio di produzione congiunto (si veda il Sole 24 Ore di ieri). Altri rappresentanti dell’Organizzazione avevano tuttavia gettato acqua sul fuoco, per ultimo l’iraniano Bijan Zanganeh, che ieri ha ricordato la necessità del consenso di tutti i membri dell’Opec e affermato che Teheran «non ha ancora ricevuto alcuna richiesta al riguardo».
Le dichiarazioni del russo Oreshkin, che avevano contribuito a spingere in rialzo il petrolio di oltre il 3%, hanno comunque perso consistenza nel corso della giornata, quando le agenzie di stampa internazionali hanno corretto il tiro: il viceministro avrebbe specificato che la produzione russa, al record post-sovietico di 10,7 milioni di barili al giorno, non diminuirà grazie ai bassi costi di estrazione.
Il barile ha addirittura virato in negativo dopo le statistiche sulle scorte Usa, che hanno mostrato un nuovo enorme accumulo di carburanti: +8,4 milioni di barili la settimana scorsa per le benzine (dopo il +10 mb della settimana precedente) e +6,1 mb per i distillati. Il Wti ha finito col chiudere a 30,48 $ (+0,1%) mentre il Brent è sceso per l’ottava seduta consecutiva, a 30,31 $ (-1,8%).
Con questi prezzi Mosca non può permettersi di rinunciare nemmeno a una goccia di petrolio. «Dobbiamo prepararci per lo scenario peggiore», ha detto il premier Dmitry Medvedev, mentre il ministro dell’Economia Alexey Ulyukayev ha paventato la possibilità di prezzi bassi «per anni, forse addirittura decenni». Una situazione che sta spingendo il Governo russo a correre ai ripari. Il titolare delle Finanze, Anton Siluanov ha prefigurato l’adozione di un pacchetto di misure da 20 miliardi di dollari, con un taglio del 10% della spesa pubblica e la possibile privatizzazione delle due maggiori banche, Sberbank e Vtb, per preservare le casse dello Stato. Nel budget è ora indicata una previsione di 50 $/barile, ma verrà abbassata a 40 $ e forse anche meno. Non fare nulla, ha avvertito Siluanov, comporterebbe il completo esaurimento entro fine anno del Fondo di riserva, uno dei due fondi sovrani russi, che a novembre ammontava a 59 miliardi di dollari.
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