Un falò di denaro (vero) per oltre 9 miliardi di euro spalmato sugli oltre 200mila soci delle due Popolari venete, la Vicenza e Veneto Banca. Può apparire un calcolo fin troppo ragioneristico ma nella sua cruda realtà è il bilancio contabile amarissimo dei due anni terribili attraversati dalle due banche cadute in crisi profonda.
È soprattutto l’eredità delle vecchie disastrose gestioni delle due banche guidate per decenni dai due rispettivi dominus, Zonin e Consoli. Con le nuove svalutazioni delle azioni di questi giorni i soci di Vicenza si ritrovano in mano titoli che valgono 6,3 euro contro i 62,5 euro di solo 2 anni fa (e 48 euro del 2015) con un taglio del 90%. Diecimila euro in azioni Vicenza sottoscritte nel 2014 oggi valgono mille.
Copione analogo per Veneto Banca: oggi il titolo vale 7,3 euro contro i 30, 5 del 2015 e i 39,5 del 2014. Un taglio secco dell’80%. Diecimila euro investiti nella banca di Montebelluna hanno oggi un valore teorico di solo 2mila. Un bagno di sangue per chi ha sottoscritto le azioni ai picchi massimi degli ultimi aumenti di capitale.
Una perdita secca ben superiore del 60% per gli azionisti di vecchissima data. Vista così l’ecatombe occorsa ai soci-clienti delle due grandi Popolari, avviate a Spa e allo sbarco in Borsa, vale in soldoni più di tre volte il valore bruciato tra capitale e bond subordinati del bail-in all’italiana sulle 4 banche locali (Etruria & C.) fallite e salvate.
E non è finita qui. I valori odierni sono valori di recesso per chi non volesse aderire alla Spa e alla quotazione, ma difficilmente le due banche potranno ricomprare a quei prezzi perchè hanno deficit patrimoniale. Sia Vicenza che Veneto in virtù delle profonde perdite cumulate negli ultimi anni hanno patrimonio ben al di sotto dei requisiti di Vigilanza. Per salvarsi e riprendere vita sono costrette entrambe a due maxi-aumenti di capitale nei prossimi mesi che sono garantiti da un consorzio guidato da Banca Imi (Intesa) per Veneto e Unicredit per Vicenza. Si potrà vendere quindi, nei fatti, solo dopo la quotazione in Borsa. A questo punto sarà il mercato a stabilire il valore “vero” dei due titoli. Verrà assunto un multiplo a cui quotano le banche italiane che oggi in media vale lo 0,3-0,4 del patrimonio post-aumento. La strada è ancora lunga quindi ma intanto i 200mila soci contano perdite reali per l’80-90% del capitale investito a suo tempo nei due istituti. La realtà amara è che il percorso verso la normalità (la Spa quotata) era ineludibile e ha smascherato anni di vendita di azioni ai soci-clienti a prezzi drogati, del tutto irrealistici rispetto allo stato di salute delle due banche. Stato di salute reso apparente dalle mancate tempestive svalutazioni di sofferenze e crediti deteriorati che i vertici delle due banche si ostinavano a non fare per non far emergere nei bilanci le reali perdite. Mentre infatti negli anni scorsi il tasso di crescita dei prestiti in sofferenza saliva per Vicenza e Veneto, ancor più della media delle altre banche, gli accantonamenti erano inferiori. Serviva a far trasparire una solidità dei conti del tutto fittizia. E serviva a giustificare un continuo rialzo anno per anno del valore dei titoli delle due banche, decisi dai Cda, mentre per il resto del sistema bancario i prezzi di Borsa scendevano. Un paradosso evidente. Quel paradosso è finito da quando le due Popolari sono entrate nell’orbita della supervisione Bce. L’autorità ha imposto il passaggio a Spa e al mercato e di conseguenza ha imposto la pulizia dei conti dalle sofferenze e incagli non svalutati adeguatamente.
Il risultato è che la pulizia dei bilanci uniformata ai criteri del resto del settore bancario ha evidenziato le perdite nascoste. Nel caso della Popolare di Vicenza il biennio 2014-2015 ha visto perdite nette cumulate per 2,1 miliardi con svalutazioni sui crediti malati per oltre 2,2 miliardi. Per Veneto Banca il bilancio delle perdite nei due anni di profonda pulizia è di oltre 1,8 miliardi. Anche in questo caso le sole rettifiche sui crediti valgono ben 1,4 miliardi. Erano gli anni in cui le due banche vendevano ai soci-clienti, spesso in cambio della sottoscrizione di mutui e fidi, le loro azioni a quei prezzi stellari decisi dai vertici a tavolino senza alcun risontro con la realtà e il vero stato di salute (fragilissimo già allora) delle due banche. L’epilogo amaro sono quegli oltre 9 miliardi di risparmi bruciati.
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