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POLITICA MONETARIA

È la settimana delle banche centrali: cosa aspettarsi da Fed, Svizzera, Bank of England e Norges Bank

Stati Uniti, Svizzera, Gran Bretagna, Norvegia. Più il Giappone di questa mattina. È davvero la settimana delle banche centrali. Domani è prevista la riunione della Fed, giovedì la Bank of England, la Bns di Zurigo e la Norges Bank di Oslo. Il tema comune a tutti è la bassa inflazione, che in qualche caso - quello svizzero è esemplare - si è da tempo trasformata in deflazione.

La riunione più attesa è evidentemente quella della Federal Reserve. La Banca centrale di Washington ha già alzato i tassi a dicembre, fino allo 0,50%, e le prime aspettative degli investitori indicavano per marzo la data possibile di un secondo rialzo. Le turbolenze sui mercati e il rallentamento della domanda globale hanno in realtà molto raffreddato queste attese, e si è addirittura temuto il ritorno della recessione negli Stati Uniti più avanti nell’anno. Non sembra però che il board della Fed sia troppo allarmato: i governatori puntano molto sulla curva di Phillips, che prevede un aumento dell’inflazione quanto diminuisce la disoccupazione.

La relazione, in realtà, è molto tenue oggi. Lo stesso vicepresidente della Fed Stanley Fisher ha spiegato in un interessante discorso ( “Riflessioni sulla macroeconomia di ieri e di oggi”) di lunedì 7 marzo, che oggi la curva di lungo periodo appare all’analisi dei dati piuttosto piatta, quasi “keynesiana”: la disoccupazione può calare quanto si vuole senza che l’inflazione salga. La Fed però è convinta che le cose andranno diversamente: «Non ci credo - ha detto Fisher a proposito di un’assenza di relazione tra prezzi e mercato del lavoro - Il legame in realtà non è mai stato molto forte, ma esiste e noi potremmo oggi vedere i primi movimenti di un aumento del tasso di inflazione - qualcosa che vorremmo accadesse».

Potrebbe essere un grave errore confondere i desideri con la realtà. Questa però è l’idea della Fed: il calo della disoccupazione - e, più in generale, tutti i progressi registrati sul mercato del lavoro - prima o poi faranno accelerare i prezzi (così come potrebbero essere gli investitori confondere i desideri - una politica ancora ultraespansiva che sostenga le quotazioni - con la realtà delle misure più razionali). Il buon andamento della partecipazione al lavoro, in rialzo dopo una lunga stasi, e dell’occupazione dei meno anziani (24-54 anni) registrato a gennaio e febbraio dovrebbe convincere la Fed che la strada per la stretta è quella giusta e si tratta soltanto di ben distanziare i prossimi rialzi per tener conto dei venti contrari globali di questa fase. Il consenso degli analisti non prevede quindi un rialzo per mercoledì.

Altrettanto importante è l’appuntamento di Zurigo. La Svizzera ha un problema: un pil nominale in calo (-0,4% nel 2015), malgrado l’aumento del pil reale (+0,9%). Non è un buon segnale, anche se il debito nazionale (pubblico e privato) non raggiunge il 50% del pil (L’Italia, dove le famiglie risparmiano tanto, è intorno al 250%). I tassi ufficiali svizzeri - il Libor a tre mesi - sono oggi (al -0,78% circa) al centro della banda di oscillazione (tra il -0,25% e il -1.25% ). Il miglioramento della deflazione, passata al -0,9% annuo, dal -1,5% di gennaio spiega almeno in parte perché il consenso degli analisti non si aspetta novità sul fronte della politica monetaria. Il rischio, per la Bns, è però - come spiega David Bloom e il suo team alla Hsbc - la possibilità che il franco svizzero diventi una valuta rifugio per chi teme la Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e punti al rialzo peggiorando le prospettive sui prezzi.

È proprio la Brexit, o meglio il suo referendum del 23 giugno, che impedirà alla Bank of England di modificare il proprio orientamento di politica monetaria. La Banca centrale preferisce - e può - evitare di lanciare segnali che potrebbero essere fraintesi, dopo che il governatore, il canadese, Mark Carney ha dichiarato l’uscita dalla Ue il maggior rischio per la stabilità finanziaria del paese suscitando molte polemica. La BoE si trova, del resto, a metà del guado: negli ultimi mesi del 2015 sembrava potesse essere la prima, tra le grandi autorità monetarie, a iniziare la stretta sui tassi, persino in anticipo rispetto alla Federal reserve. Le mutate condizioni economiche hanno però spinto Carney a modificare il proprio orientamento e a rinviare ogni rialzo. In Gran Bretagna il prodotto interno lordo è salito nell’ultimo trimestre 2015 dello 0,5% trimestrale - sostanzialmente in linea con i trimestri precedenti - mentre l’inflazione, pur in recupero dal -0,1% di ottobre, è ancora allo 0,3 per cento.

Potrebbe invece abbassare i tassi, dallo 0,75% allo 0,50%, la Norges Bank di Oslo. Questa è l’indicazione del consensus anche se le previsioni della stessa della banca centrale sulla propria futura politica indicano un taglio del costo del credito più avanti nel 2016. La flessione del greggio, però, sta penalizzando l’economia: il pil della “terraferma” (che esclude le piattarforme petrolifere) è cresciuto nell’ultimo trimestre del 2015 allo 0,1% dallo zero del terzo (quello complessivo ha segnato un -1,2% contro il +1,6% dell’estate). La Norges Bank si aspettava un +0,3%, e ora potrebbe dare un segnale.

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