Finanza & Mercati

Una banca forte per il territorio

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l’analisi

Una banca forte per il territorio

Eppur si muove. Con la storica decisione dei consigli di ieri, si avvia la fusione fra Banco Popolare e Bpm, si supera l'immobilismo tolemaico dovuto ad una governance non più al passo con i tempi che aveva impedito ai due istituti (e soprattutto al secondo) di realizzare progetti straordinari imposti dagli scenari emersi dopo la crisi. La trasformazione obbligatoria in Spa, ma soprattutto il pressing delle autorità iniziato dalla Banca d'Italia e proseguito dalla Bce hanno consentito alla fine di dare il disco verde al progetto di cui si discuteva da tempo e che apre grandi aspettative. Non a caso, la responsabile della vigilanza  europea, Danièle Nouy, ha dichiarato che l'operazione «deve essere un successo perché altre ne seguiranno» e dunque deve essere un modello di riferimento. Per l'Europa ma anche per l'Italia.

La delibera di ieri è un grande risultato, ma non bisogna dimenticare che la fusione è un mezzo, non un fine a sé stesso. Prima di tutto perché non è vero che le integrazioni portano automaticamente alla riduzione dei costi. Analisti e consulenti tendono a dare per scontato il conseguimento delle mitiche “sinergie”, ma la realtà pratica è sempre più complessa e irta di insidie dei conti a tavolino. Non a caso, Danièle Nouy ha ricordato quante fusioni in passato, anche in Italia, si siano risolte in un insuccesso.

In secondo luogo, perché la fusione deve essere il primo passo, necessario ma non sufficiente, per affrontare i grandi cambiamenti imposti dalla crisi. Banche come Bpm e Banco Popolare hanno tradizioni gloriose ma, indipendentemente dai problemi di governance, faticano a trovare un modello di business sostenibile nello scenario futuro, in cui – anche nelle ipotesi più favorevoli – si registreranno modesti ritmi di crescita dell'economia (e quindi dei volumi di attività) e tassi di interesse prossimi allo zero.

Questo scenario è del tutto insolito e pone problemi particolarmente acuti per le banche orientate all'attività al dettaglio (che invece fino a qualche tempo fa era un grande punto di forza) e con qualche fragilità ereditata dal passato, sotto forma di peso rilevante dei crediti deteriorati e/o di livelli di capitalizzazione pericolosamente vicini alla soglia richiesta dal mercato, prima ancora che dai vigilanti.

Le condizioni per il successo auspicato dalla Nouy sono scontate. Innanzitutto, un aumento di capitale: la fusione di per sé non genera patrimonio e dunque deve essere un passo per indurre il mercato a sottoscrivere nuove azioni in un momento molto delicato per l'investimento azionario in genere e quello bancario in particolare. Il progetto di fusione fra Banco Popolare e Bpm comporta una nuova emissione per 1 miliardo di euro, a dimostrazione del fatto che i primi sondaggi con gli investitori hanno dato risultati positivi. La seconda condizione riguarda la governance della nuova banca: troppo spesso in Italia le fusioni hanno dato risultati negativi perché hanno prodotto vertici ed organi sociali attenti molto più agli equilibri degli stakeholder di riferimento (fossero soci di cooperative, fondazioni o centri di potere locale poco importa) che alle esigenze di gestione di un'azienda grande e moderna. Prova ne sia che gli organi sociali delle due banche in questione oggi contano oltre cinquanta esponenti, sufficienti per organizzare un quadrangolare di calcio, ma pletorici per due banche di media dimensione. Ancora di più ovviamente per una grande.

La terza condizione riguarda il conseguimento di condizioni di equilibrio sostenibile. Diversamente da quanto avveniva in passato, l'integrazione non è il modo per diluire i problemi di una banca in difficoltà in un'altra più robusta. Qui si tratta di sfruttare l'occasione per riscrivere un piano industriale capace di affrontare lo scenario difficile che si prospetta e di conseguire risultati soddisfacenti per gli azionisti e i clienti, visto che gli uni e gli altri hanno sopportato negli anni recenti pesanti sacrifici.

La fusione decisa ieri deve essere un modello anche per l'Italia. Il nostro sistema, che pure si era dimostrato fra i più robusti al momento della crisi, ha messo in luce debolezze diffuse in tante banche di medie dimensioni, cioè nelle banche locali più vicine al cuore del tessuto produttivo del nostro paese.

E' un fatto assolutamente nuovo, oltre che inatteso come del resto tutte le crisi. In passato, il ventre molle del sistema bancario italiano era stato quello pubblico meridionale, più permeabile alle deviazioni del clientelismo. Le banche entrate in crisi negli ultimi dieci anni sono tutte private e operano nelle regioni più ricche e industrializzate. Il tratto comune che le unisce è una governance deviata (non solo nelle banche popolari) che ha portato a privilegiare interessi particolari e torbidi a quelli della crescita di lungo periodo. Con tutte le conseguenze negative del caso non solo per gli azionisti, ma anche per la clientela ordinaria: risparmiatori e imprese. Si incrina la fiducia dei primi, che è uno degli asset fondamentali di ogni banca; si riduce per i secondi la probabilità di ottenere il credito necessario per la gestione corrente e gli investimenti.

Occorre superare al più presto tutti questi diffusi punti di crisi e rimettere in condizioni normali di operatività una banca grande come Monte dei Paschi, ma anche le molte banche medie e piccole del Centro-Nord che ancora vacillano. Soprattutto per la prima, va detto con il senno di poi che l'intervento diretto statale (realizzato senza esitazioni da tanti altri paesi europei) sarebbe stata una soluzione meno costosa. Ma a questo punto, anche per la banca cui si addice la romanza di Cherubino («molto onor, poco contante») l'unica strada percorribile sembra quella dell'aggregazione con un altro istituto, che agli occhi della vigilanza europea potrebbe benissimo essere non italiano. Motivo in più, perché la fusione che nasce oggi nel Lombardo-Veneto si estenda all'intero territorio nazionale. E' già successo nel Risorgimento, in fondo.

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