
Un diluvio di dividendi bagna oggi Piazza Affari. Sono infatti ben 66 le società quotate che questa mattina hanno staccato la cedola per un ammontare complessivo di 8 miliardi di euro che pesa (apparentemente) anche sull’andamento del Ftse Mib, il principale indice della Borsa milanese. Una buona fetta di questo denaro finirà in mano ai piccoli azionisti privati , che potranno quindi rallegrarsi per gli introiti immediati (ancor più graditi in una fase di mercato caratterizzata da tassi rasoterra per i titoli obbligazionari) ma che potrebbero anche finire vittime di quella che a tutti gli effetti è una potenziale trappola tesa dalle maxi-cedole.
Orfani di BoT e BTp
Le famiglie italiane si sono progressivamente allontanate da BoT, BTp e altri titoli di Stato (la quota detenuta è pari a 94 miliardi sul totale del debito pubblico negoziato ed è scesa al 5% dal 35% prima dell’euro e dal 20% prima della Grande Crisi) proprio per via della riduzione dei loro rendimenti e hanno cercato rifugio
soprattutto nel risparmio gestito, come dimostra il continuo boom della raccolta netta da parte della Sgr. È però probabile che molti investitori privati si siano anche affidati a quelle azioni che tradizionalmente offrono i dividendi più interessanti in rapporto al prezzo (il cosiddetto dividend yield) puntando quindi su una sorta di surrogato di quella cedola che i bond garantiscono in genere con cadenza semestrale e alla quale storicamente in Italia si è abituati.
Ma un’azione non è un’obbligazione, osservazione assai banale in sé che spesso però si tende a scordare: non lo è perché principalmente il grado di rischio e la volatilità del suo prezzo sono generalmente molto più elevati. In parole povere, ciò che si incassa con le cedole più o meno elevate lo si rischia di perdere (è il caso di dire, con gli interessi) nel prezzo, e non soltanto perché nel giorno in cui si stacca la cedola (come oggi) la Borsa sconta immediatamente l’effetto per il semplice motivo che una fetta degli utili lascia l’azienda e non viene reinvestita nel processo produttivo.
Trappola o strategia vincente?
L’impatto va invece valutato almeno nel medio termine, e sotto questo aspetto, con un indice Ftse Mib che da un anno a questa parte ha lasciato sul terreno oltre un quarto del proprio valore, è relativamente semplice (se non addirittura scontato) imbattersi in titoli di singoli società che hanno perso più di quanto elargito tramite il dividendo (che in media sfiora il 4% per Piazza Affari). Ma se in questi casi è facile parlare a tutti gli effetti di «trappola del cedolone», non è necessariamente vero che seguire la strategia del dividendo, come possono fare i risparmiatori con il fai-da-te o come fanno le case di investimento con strumenti ad-hoc quali fondi ed Etf, sia una scelta sbagliata.
L’importanza del total return
Cruciale, sotto questo aspetto, è fare i conti con il rendimento total return, una formuletta che considera sia quello che si intasca con cadenza semestrale o annuale attraverso le cedole, sia ovviamente il potenziale guadagno o perdita che si crea con la variazione del prezzo. E altrettanto importante è ragionare in termini prospettici: chiedersi in altre parole se il dividendo che viene pagato sia sostenibile nel corso degli anni o se sia invece un mezzo per remunerare certi azionisti anche oltre gli utili effettivamente creati o addirittura un vero e proprio specchietto per le allodole.
Quando gli utili diminuiscono
Piazza Affari, a questo proposito, non sembra proprio essere l’esempio più virtuoso, perché se è vero che nel complesso il monte dividendi distribuito nel 2016 è cresciuto a 17,5 miliardi di euro da poco più di 15 miliardi dell’anno precedente, è altrettanto vero che i bilanci 2015 (l’esercizio in base al quale vengono elargite le cedole) hanno evidenziato una generale riduzione degli utili di quasi un quarto e vi sono anche società (Eni è una di queste) che hanno distribuito denaro ai soci pur non avendo realizzato profitti nel corso dell’anno. Non sempre questa pratica apparentemente contraria al buon senso è da condannare: a volte si preferisce mantenere con gli azionisti un rapporto stabile di remunerazione, senza tener conto di fasi di mercato avverse che possono poi rivelarsi temporanee. Per l’investitore però è un campanello d’allarme da non sottovalutare, e un segnale di come il «paracadute» della cedola possa non funzionare, spesso proprio quando sarebbe più necessario.
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