
«Siamo arrivati a questa situazione per diverse ragioni. Ma non ho nulla su cui recriminare». Così Federico Ghizzoni ha parlato delle sue dimissioni da UniCredit, date dopo 36 anni di carriera interna e ad appena tre mesi dal Cda della banca che aveva «espresso all’unanimità la piena fiducia all’Amministratore Delegato e il convinto supporto al suo operato».
Ma da un’inchiesta condotta da Il Sole 24 Ore emerge innanzitutto che quando fu espresso quel supporto era meno “convinto” di quanto si dicesse, e che qualcosa su cui recriminare forse Ghizzoni ce l’ha.
Ci riferiamo al modo con cui è stato gestito l’accordo sull’aumento di capitale della Banca Popolare di Vicenza, accordo concluso dal vicedirettore generale responsabile dell’investment banking Gianni Franco Papa, uno dei quattro top manager che in UniCredit riportano direttamente all’amministratore delegato.
Al nostro giornale risulta che alcuni azionisti non abbiano affatto apprezzato le condizioni di quell’accordo. In particolare il grado di rischio assunto e la contropartita prevista - appena 7,5 milioni di euro.
Raggiunto dal nostro giornale, l’Ad di Unicredit ha fermamente respinto ogni critica, spiegandoci che quello che il 21 settembre 2015 era stato presentato dalla Bpvi come un «un accordo preliminare di garanzia», in realtà «non era una garanzia piena, bensì una pre-garanzia», che solo in base a una serie di 14 condizioni si sarebbe trasformata in vera garanzia con una parallela sindacazione dell’operazione.
“Se la quotazione non fosse andata in porto, UniCredit non sarebbe stata costretta a fare quello che ha poi fatto il Fondo Atlante, cioè assorbire la Popolare di Vicenza ”
Federico Ghizzoni, ex Ad di UniCredit
Quella commissione così poco sostanziosa sarebbe dunque attribuibile proprio al fatto che non era stato preso un impegno vincolante bensì un accordo di «pre-underwriting subordinato alla quotazione in Borsa della banca».
Insomma, ci spiega Ghizzoni, se la quotazione non fosse andata in porto, UniCredit non sarebbe stata costretta a fare quello che ha poi fatto il Fondo Atlante, cioè assorbire la Popolare di Vicenza.
Questa ricostruzione cozza però con informazioni a noi filtrate dal mondo degli azionisti, secondo le quali per UniCredit non sarebbe stato affatto facile sfilarsi dall’impegno preso.
«Era prevedibile che l’aumento di capitale della Bpvi sarebbe stato problematico», commenta un banchiere terzo, che chiede l’anonimato. «Tanto è vero che all’inizio io ho interpretato l’accordo come un’acquisizione mascherata. Pensavo cioè che UniCredit fosse interessata alla rete della vicentina e dunque che il suo obiettivo fosse quello di comprare per poco l’istituto di Zonin».
A Il Sole 24 Ore risulta che già alla fine dell’anno scorso alcuni grandi azionisti della banca fossero dell’idea che Ghizzoni avesse esaurito il proprio compito. E che fosse venuta l’ora di iniettare sangue fresco in un top management che come Ghizzoni era quasi esclusivamente cresciuto attraverso una carriera all’interno della banca, cosa che, agli occhi dei più critici, aveva non solo creato situazioni di ingessamento manageriale ma anche di occupazione di spazi esenti da vigilanza esterna.
«UniCredit è nota tra le grandi banche per aver privilegiato le appartenenze interne alle professionalità esterne. Non a caso le sue prime linee sono essenzialmente fatte di manager dai curriculum “corti”, cioè cresciuti da dentro», commenta lo stesso banchiere.
La forte autonomia delle prime linee di UniCredit sarebbe stata di fatto abbracciata non solo dall’Ad Ghizzoni ma anche dal presidente Vita. E persino dal «contingente tedesco», cioè coloro che in consiglio esprimono azionariato e management della realtà bancaria tedesca acquisita ma mai veramente integrata da Alessandro Profumo. «I tedeschi non hanno mai voluto dipendere da Milano e, in cambio del massimo grado di autonomia loro, non hanno invece interferito sulla gestione milanese», ci dice un’altra fonte.
Già in autunno del 2015, gli “azionisti critici” avevano cominciato a valutare un cambio della guardia che non si limitasse solo all’Ad ma andasse a toccare anche le prime linee. E furono colti in contropiede da quello che è stato definito il “blitz di Vita”.
Ci riferiamo al Cda del 9 febbraio scorso quando, dopo aver presentato i buoni risultati del 2015 - un utile netto di gruppo oltre i 2,2 miliardi e una proposta di dividendo da 12 centesimi ad azione - il Presidente Vita, con il supporto della componente tedesca del Cda, ha proposto una mozione di «piena fiducia» all’amministratore delegato.
A riattivare gli «azionisti critici» è stata l’operazione con la Bpvi. A fine inverno scorso, dopo l’esplosione del bubbone dei cosiddetti «non-performing loans» e l’implosione di Banca Etruria, Cassa Marche, Cariferrara e Carichieti, sono infatti cresciuti i dubbi sulla possibile riuscita dell’aumento di capitale da un miliardo e mezzo imposto dalla Bce all’istituto che per 17 anni era stato gestito dal viticultore Gianni Zonin con metodi autocratici e risultati disastrosi.
Come ha confermato lo stesso Ad di Unicredit, la questione viene sollevata in Cda per la prima volta, e ad accordo siglato, nel marzo scorso. Fino ad allora Ghizzoni non aveva fatto alcun passaggio in consiglio, essendo le sue deleghe sufficientemente ampie da permetterglielo.
«Pur avendo formalmente le deleghe, a mio giudizio l’Ad avrebbe comunque dovuto premunirsi e portarla in consiglio», osserva il banchiere già citato. «Anche perché l’impegno sull’aumento di capitale si sarebbe potuto trasformare in un’acquisizione nel momento in cui soci e mercato non avessero risposto bene». In quanto potenziale acquisizione, si può argomentare, sarebbe stato opportuno un passaggio non solo in Cda ma anche in Comitato rischi. Invece, come ci ha confermato lo stesso vertice di Unicredit, questo passaggio è avvenuto solo il 4 maggio, cioè quando il rischio era già stato trasferito ad Atlante.
Come abbiamo detto, secondo il vertice della banca, l’accordo non sarebbe risultato vincolante, ma resta il fatto che a togliere le castagne dal fuoco sia arrivato il Fondo Atlante, uscito dal cilindro di Governo e Banca d’Italia per salvaguardare il sistema bancario nazionale. Ma anche Unicredit. Secondo Alessandro Penati, presidente del Fondo Atlante, quei 1,5 miliardi avrebbero infatti «messo in crisi la più grossa banca italiana, unica di valore sistemico».
Questo ha chiaramente indebolito molto la posizione di Ghizzoni con i grandi azionisti. Il 15 maggio scorso, costoro hanno conseguentemente deciso di incontrarlo ed esprimere le loro preoccupazioni. Solo a quel punto, l’Ad che anche dai critici viene definito «un vero galantuomo», senza che nessuno glielo chiedesse, ha annunciato la sua uscita di scena.
Come è successo anche con Mario Greco ad Assicurazioni Generali, nessuno aveva però un nome pronto per la persona da mettere al timone dell’unica banca italiana ritenuta “sistemica” dalla Bce. Dunque il sostituto lo si sta cercando solo ora.
Indipendentemente dalla scelta che si farà sul suo erede, una cosa è comunque certa: il nuovo Ad si troverà non solo a gestire le criticità del rafforzamento patrimoniale chiesto da Francoforte e dell’efficientamento della banca, ma quelle forse ancor più complesse del top management italiano da rinnovare e dell’autonomia del «contingente tedesco» della holding, che invece farà di tutto per mantenere la propria autonomia. Se non addirittura tentare di separarsi da Milano.
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