Un anno fa sui mercati finanziari andava in scena l’ipotesi Grexit. Il referendum con cui Tsipras sfidava l’austerità europea alimentò uno scenario di fuoriuscita della Grecia dall’area euro. Gli investitori non la presero bene. Si innescò il meccanismo di fuga verso la qualità (flight to quality) che prevede uno spostamento dei capitali dalle classi di investimento più rischiose (azioni) verso i titoli rifugio (obbligazioni e valute degli Stati ritenuti più affidabili, quindi Stati Uniti, Giappone, Svizzera, Germania, e materie prime rifugio come l’oro).
È passato un anno e sui mercati ora va in scena l’ipotesi Brexit. Anche qui c’è un referendum di mezzo. Il 23 giugno i cittadini britannici dovranno decidere se la Gran Bretagna dovrà rimanere tra i 28 Paesi membri dell’Unione europea oppure uscire da questa unione, sulla falsariga di quello che avvenne nel 1992 quando la Gran Bretagna uscì dal Sistema monetario europeo (una sorta di pre-euro, un sistema di cambi semi-rigido).
E anche qui c’è una fuga verso la qualità. Nelle ultime due settimane le Borse europee sono salite sulle montagne russe con il Bund (considerato il titolo rifugio dell’area euro) comprato a mani basse (ieri il decennale è sceso per la prima volta sottozero). Ma a differenza di quanto accadde lo scorso anno il Paese sotto i riflettori, protagonista di una possibile rottura degli accordi europei, non può certo definirsi sotto attacco dei mercati.
L’anno scorso infatti nel bel mezzo del referendum i titoli di Stato di Atene furono colpiti da violente vendite: il rendimento dei titoli a due anni balzò addirittura oltre il 20% superando quello dei titoli decennali in una chiara inversione della curva dei rendimenti (che si verificano quando gli investitori temono il default di un Paese). Mentre i Gilt (i titoli di Stato britannici) con scadenza a 10 anni hanno aggiornato nelle ultime ore il nuovo minimo storico a quota 1,14%. Ergo: continuano ad essere comprati.
Paradossalmente, più aumentano le probabilità di Brexit (questa mattina il grafico che le contempla è balzato al 39% delle probabilità quando la settimana scorsa era al 23%) più gli investitori si rifugiano nel Gilt.
Basterebbe questo dato per capire che in questo momento la Gran Bretagna non è sotto il tiro incrociato dei mercati. A questo dato possiamo aggiungerne un altro. Lo spread tra il rendimento dei corporate bond (obbligazioni emesse da società private) britannici e quelli europei con giudizio investment-grade (titoli quindi considerati non speculativi) si mantiene relativamente tranquillo intorno ai 150 punti (a fine febbraio era balzato a 209 punti). Quindi, i mercati stanno comprando Gilt e non stanno certo vendendo i titoli delle società britanniche.
Anche questo secondo indizi0 confuta l’idea di un Regno Unito sotto attacco per l’eventualità del Brexit. Ma se due inidizi a volte possono non bastare, eccone un terzo. Il Ftse 100 - l’indice della Borsa di Londra - sta soffrendo in queste ultime sedute molto meno rispetto all’indice delle Borse dell’area euro (e ad esempio del Ftse Mib di Piazza Affari). Nonostante si parli ormai da diversi mesi del referendum sul Brexit (comunicato poi ufficialmente dal premier David Cameron a febbraio) la Borsa londinese negli ultimi sei mesi è arretrata “appena” del 6,5% a differenza del -18% dell’indice Eurostoxx 50 e del -27% di Piazza Affari. Quindi le vendite degli ultimi giorni sul Ftse-100 (di portata inferiore rispetto alla media europea) sembrerebbero riconducibili più al generale effetto flight-to-quality che colpisce l’azionario nei casi in cui aumenta l’avversione al rischio che non al rischio intrinseco del mercato londinese.
L’unica classe di investimento in cui si sta al momento riversando lo scenario Brexit è rappresentata dalla sterlina. Negli ultimi sei mesi la volatilità sul pound si è impennata sui livelli più alti degli ultimi setti anni. Da inizio anno la sterlina ha perso il 4% sul dollaro e il 7,5% nei confronti dell’euro. Secondo gli analisti in caso di Brexit potrebbe continuare a perdere terreno (alcuni non escludono il ritorno in parità con l’euro).
Va però detto che la svalutazione della sterlina - nelle proporzioni attuali - potrebbe essere solo una svantaggio parziale l’economia britannica, in un mondo in cui tutti i Paesi fanno a gara a svalutare la propria divisa (i vari piani di quantitative easing che le principali banche centrali stanno orchestrando da anni mirano proprio a questo) e può anche in alcuni ambiti essere considerato salutare (soprattutto per quella parte orientata all’export). Va anche detto che il calo non pare eclatante visto che la sterlina viaggia sugli stessi livelli di fine 2014.
Ma allora come mai - nonostante lo scenario Brexit prenda giorno dopo giorno più vigore (ieri il Sun, il primo quotidiano britannico vi si è schierato apertamente a favore) - la Gran Bretagna non risulta sotto attacco (anzi gli investitori si rifugiano nel debito britannico)? E come mai al momento il settore più penalizzato da questa ondata di avversione al rischio è quello delle banche europee che hanno chiuso in ribasso 10 volte nelle ultime 11 sedute? E come mai stanno soffrendo più le Borse europee che non quella di Londra?
Quanto alle manovre sul Gilt gli analisti sostengono che gli acquisti vanno a scontare le nuove manovre espansive che la Bank of England metterebbe in atto in caso di Brexit. Quindi i mercati si aspettano una Bank of England più aggressiva in caso di uscita dall’Ue e quindi comprano Gilt, anziché venderli.
«Anche perché il bond governativo riflette il merito di credito del Paese, cioè le probabilità che non ripaghi il debito - spiega Alfondo Maglio di Marzotto Sim -. Mentre la sterlina riflette direttamente il rischio Brexit. I dati indicano che al momento non c’è panico sulle classi di investimento britanniche. Questo è dovuto anche al fattore esogeno delle banche centrali. Non dimentichiamo che da giugno la Bce ha iniziato a comprare corporate bond abbassando i rendimenti anche in questo comparto e quindi spingendo una parte degli investitori sui bond prossimi, come quelli espressi in sterline. Anche per questo motivo lo spread tra titoli Uk ed europei non sta aumentando. Questo parametro non riflette una riduzione di percezione del rischio ma semplicemente una ricerca di rendimento, anche qui drogata dalle azioni delle banche centrali».
Le aspettative di ulteriori doping delle banche centrali (tanto della Bank of England quanto della Bce) ci aiutano a capire in parte perché la Gran Bretagna non sia sotto attacco.
Ma c’è anche un altro motivo. I mercati in questo momento stanno attaccando il settore bancario europeo. Da inizio anno l’indice europeo ha perso il 35%, quello italiano il 50%. Anche quello giapponese (-36%) non se la passa bene.
Come mai? Il settore sta scontando la bolla dei tassi negativi (che abbattono i margini delle banche nell’attività tradizionale, quella peraltro legata al rilancio dell’economia). Una bolla senza freni. Ormai 10mila miliardi di bond governativi nel mondo viaggiano sottozero. Questo rende complicato per la Fed alzare i tassi di interesse. Goldman Sachs ha calcolato che l’aumento di un punto percentuale nei rendimenti provocherebbe perdite per 2,4 miliardi di dollari solo sui bond acquistati un mese fa. È chiaro, come dice il gestore Bill Gross che siamo in presenza di «una supernova che un giorno esploderà» dato che «i rendimenti globali al minimo degli ultimi 500 anni».
Il Brexit quindi sembra far paura più al settore bancario - perché spingerebbe le banche centrali a prolungare anzi ad esacerbare la politica dei tassi sottozero - piuttosto che alla Gran Bretagna. Questo oggi ci lasciano intendere i mercati.
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