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Brexit e Fed fanno volare l’oro oltre 1.300 dollari, ai…

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Brexit e Fed fanno volare l’oro oltre 1.300 dollari, ai massimi da 2 anni

Era solo questione di tempo e ieri è puntualmente accaduto: in uno scenario in cui tutto sembra congiurare a favore dell’oro, il metallo ha superato di slancio la barriera dei 1.300 dollari l’oncia, per spingersi ai massimi da due anni. Il picco raggiunto ieri sul mercato spot londinese è stato 1.315, 55 $. Seguendo le turbolenze dei mercati valutari, le quotazioni si sono poi gradualmente ritirate fino a scendere sotto 1.290 $, ma gli analisti sono convinti che ritroveranno slancio, per continuare a correre almeno fino a giovedì prossimo, quando gli elettori britannici sceglieranno se dire addio all’Unione europea.

Il rischio Brexit è diventato un fattore cruciale per guidare i corsi dell’oro, che per inciso in sterline e in euro si è arrampicato al record non da due, bensì da tre anni. L’atmosfera è quella classica di fuga dal rischio: anche il petrolio non a caso sta soffrendo, con un ribasso del 3% ieri che l’ha portato ai minimi da tre mesi (il Brent ha chiuso a 47,19 $/barile).

La possibilità che Londra si sganci dalla Ue apre enormi scenari di incertezza, che stanno destabilizzando tutti i mercati finanziari e che rischiano di durare anche oltre la data del referendum. In caso di vittoria del sì non è chiaro «come e quando avverrà l’uscita» fa notare Ross Norman di Sharp Pixley, convinto che «questo farà salire ancora i prezzi».

Per Hsbc il prossimo traguardo dell’oro in caso di Brexit è 1.400 dollari, mentre un esito opposto - che sarebbe una sorpresa, dato l’attuale andamento dei sondaggi - potrebbe far scivolare il prezzo a 1.220 $/oncia. «Nello scenario Bremain l’oro troverebbe comunque il sostegno di numerosi altri fattori esogeni», afferma Hsbc. Sulla stessa linea è David Govett di Marex Spectron, convinto che «un voto per restare nella Ue non farebbe crollare il prezzo delll’oro», mentre anche un rapporto di Natixis avverte che «ci sarebbe solo un leggero deprezzamento, perché il driver principale sono gli Stati Uniti».

Il cambio di rotta della Federal Reserve è stato in effetti il principale fattore scatenante del rally dell’oro, che nel 2016 - dopo tre anni consecutivi di ribassi - ha guadagnato finora più del 20% sotto la spinta di un flusso di investimenti decisamente robusto. Il patrimonio degli Etf in particolare è aumentato di oltre il 30% da inizio anno, salendo al massimo da ottobre 2013 (1.883,2 tonnellate al 15 giugno, secondo Bloomberg).

Anche con la riunione di mercoledì la Fed ha dato una mano al lingotto: la presidente Janet Yellen ha confermato un approccio molto cauto al rialzo dei tassi di interesse, anche per il 2017 e 2018, e ha espresso preoccupazione per la salute dell’economia globale, facendo peraltro riferimento anche al potenziale impatto di una Brexit, che molti analisti temono possa innescare una nuova recessione (quanto meno in Europa).

Anche la campagna presidenziale negli Stati Uniti aggiunge un elemento di incertezza agli scenari globali, che può favorire l’oro. Ma sono soprattutto le banche centrali ad alimentare il rally, con la politica dei tassi sotto zero che - unita alla fuga dal rischio - sta mandando a picco i rendimenti di molti titoli di Stato. Ieri anche la Banca del Giappone è rimasta di nuovo ferma, citando come la Fed i timori per la Brexit.

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