«Make America great again», già utilizzato da Ronald Reagan nel 1979 e da Bill Clinton nel 1992, è diventato – previo regolare acquisto dei diritti - lo slogan elettorale di Trump. E in attesa di vedere di nuovo un’America grande, stiamo vedendo un dollaro di nuovo grande, anzi grandissimo, ai massimi da oltre 13 anni sulle altre principali valute mondiali. Dopo essere stato frenato in primavera da quello che alcuni rumors davano come patto segreto delle banche centrali per svalutare il biglietto verde (evitando scossoni ai Paesi emergenti), ecco che lo tsunami Trump ha lanciato il dollaro in orbita, per esempio a 1,06 contro l’euro, valuta questultima che sconta tutte le incertezze politiche nel Vecchio Continente.
Il superdollaro è un bene o un male? Dipende dai punti di vista. Per le industrie mondiali (anche italiane) che esportano verso gli Stati Uniti è senz'altro un bene, anche se la debolezza dell’euro e della sterlina datano a prima dell’elezione di Trump, segnalando ben altri malesseri. È invece un male per le imprese esportatrici statunitensi, come hanno fatto notare sia il numero uno della Fed Janet Yellen che lo stesso neopresidente americano, quest’ultimo approfittandone per accusare Pechino di indebolire il renmimbi.
Il biglietto verde al testosterone rischia insomma di rivelarsi un boomerang per la stessa base elettorale di Trump. «Un dollaro troppo forte frena la crescita americana - nota Joachim Fels, global economic advisor di Pimco - e in particolare colpisce il settore manifatturiero, cioè la base elettorale del neopresidente».
La vera botta, però, è destinata ad arrivare sui Paesi emergenti, legati mani e piedi ai capitali stranieri e - in caso di rialzo dei tassi americani - vulnerabili ai deflussi di capitali. Il debito mondiale denominato in dollari ma non in mano a debitori statunitensi ammonta a qualcosa come 10mila miliardi: con questi numeri un biglietto verde forte e un rialzo dei tassi - come dimostra anche la storia - rappresentano un mix micidiale.
Non è un caso che dopo l’elezione di Trump l’indice azionario dei Paesi emergenti, il Msci emerging market index, abbia perso il 6%. E che le banche centrali di Malesia e Indonesia siano già state costrette a intervenire a difesa delle loro valute per evitare una svalutazione violenta. Un biglietto verde troppo forte può in prospettiva fare molto male anche alla Cina e al resto degli emergenti, oltre che agli asset più rischiosi. E più in generale, alla stabilità finanziaria globale.
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