Rio Tinto dice addio al carbone, o quanto meno a quello termico, impiegato nelle centrali elettriche. Il gigante minerario si è accordato per vendere a Yancoal Australia(quotata a Sydney, ma controllata dal Governo cinese) la Coal & Allied Industries, società che riunisce quasi tutte le miniere carbonifere di cui non era ancora riuscito a disfarsi, comprese le più grandi, nella Hunter Valley (New South Wales), con una produzione di 17 milioni di tonnellate l’anno scorso.
Il prezzo fissato per la cessione è di 2,45 miliardi di dollari in contanti, cui si aggiunge l’impegno dei cinesi a pagare royalties per i prossimi dieci anni: un buon affare per Rio secondo gli analisti, che plaudono soprattutto al timing dell’operazione, avvenuta probabilmente al culmine dello spettacolare recupero dei prezzi del carbone.
Il combustibile è stato tra i protagonisti assoluti del ritorno in auge delle materie prime nel 2016: invertendo la rotta dopo cinque anni consecutivi di ribassi, si è apprezzato di oltre l’80% fino a superare 100 dollari per tonnellata (ora è tornato a quotare intorno a 82 $).
Anche Yancoal può vantarsi dell’operazione, grazie alla quale diventerà il maggior produttore “puro” di carbone in Australia, contribuendo a rassicurare Pechino sul fronte degli approvvigionamenti. Nell’ultimo piano quinquennale dell’Amministrazione nazionale dell’energia il Governo cinese punta a ridurre la quota di carbone nella generazione elettrica dal 75 al 55% entro il 2020, ma visto che i consumi sono in forte crescita questo implica comunque la costruzione di nuove centrali a carboni, dagli attuali 900 a ben 1.100 Gigawatt di capacità: un incremento superiore all’intera potenza installata in Canada.
Per combattere l’inquinamento Pechino l’anno scorso aveva disposto la chiusura di diverse miniere di carbone, misura che ha fatto aumentare di un quarto le importazioni cinesi e che in gran parte è stata all’origine del rally dei prezzi.
Non è comunque scontato che gli asset di Rio Tinto finiscano davvero in mani cinesi. Le miniere australiane fanno gola anche a Glencore, che ha operazioni adiacenti, e a X2 Resources. Quest’ultima società, fondata dell’ex ceo di Xstrata Mick Davis, era anche entrata in trattative con Rio, salvo poi rinunciare su pressione di alcuni investitori, restii a rilevare asset nei combustibili fossili.
Rio stessa afferma di aver scelto Yancoal, tra diversi altri potenziali acquirenti, solo perché la sua offerta era l’unica a valorizzare gli asset in modo «convincente», ma di essere pronta a riaprire il dossier con chiunque metta sul piatto almeno 100 milioni di dollari in più.
I cinesi d’altra parte rischiano di non essere in grado di condurre in porto l’affare. Yancoal – con bilanci in rosso e una capitalizzazione di appena 306 milioni di dollari – deve anticipare a Rio 1,95 miliardi di dollari, ma per ora può contare solo su metà della somma: quella che le darà l’azionista di maggioranza, la statale Yanzhou Coal Mining, che ha promesso di sottoscrivere un aumento di capitale.
L’operazione è inoltre vincolata al via libera delle autorità australiane, che potrebbero non gradire il passaggio in mani straniere di alcune tra le maggiori risorse di carbone del Paese. È anche vero che la creazione di Yancoal Australia era stata un escamotage proposto proprio da Canberra, nel 2009, per consentire a Yanzhou di comprare l’australiana Felix Resources.
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