I fondi di investimento stanno scommettendo sempre più forte sul rally del petrolio, con una foga che ha alzato la posta a livelli senza precedenti e potrebbe fare da preludio a un’improvvisa inversione di rotta per le quotazioni del barile.
Difficile dire se abbia pesato di più la fiducia nei tagli di produzione dell’Opec o piuttosto la volontà di inserire in portafoglio uno “scudo” dal rischio inflazione. Fatto sta che gli hedge funds da circa tre mesi non smettono di accumulare posizioni rialziste sul greggio (e su diverse altre materie prime, in primis il rame). Il risultato è che, tra Brent e Wti, l’esposizione netta lunga – ovvero all’acquisto – ha ormai raggiunto l’equivalente di 885 milioni di barili, con un aumento di 41 mb solo nella settimana al 31 gennaio.
Tra gli speculatori i ribassisti sono in via di estinzione: ormai la categoria dei Money manager ha in mano posizioni corte per appena 111 mb, in pratica una sola scommessa al ribasso ogni nove al rialzo. La tendenza riguarda solo i fondi, perché gli operatori commerciali – probabilmente impegnati in attività di hedging – continuano invece ad incrementare le vendite a termine da quando l’Opec, a fine novembre 2016, ha deliberato di tagliare la produzione, alleandosi in seguito con la Russia e altri Paesi esterni al gruppo.
Un tale sbilanciamento dei fondi di investimento su posizioni rialziste inizia comunque a sollevare perplessità: una proporzione 9:1 tra “lunghi” e “corti”, osserva John Kemp, analista di Reuters, non si osservava da maggio 2014, quando la guerra civile aveva fatto crollare le esportazioni di greggio dalla Libia. Il mese successivo il prezzo del petrolio superò 115 dollari al barile, per poi entrare poco dopo in una spirale ribassista durata oltre due anni.
Anche oggi non si può escludere il rischio di una brusca ondata di vendite, se qualcosa innescasse una corsa a liquidare posizioni lunghe. Dal punto di vista dei fondamentali le condizioni del mercato sono comunque diverse rispetto a due anni fa: anche se restano enormi scorte da smaltire, l’offerta di petrolio non è più in eccesso rispetto alla domanda. Merito anche della disciplina finora dimostrata dall’Opec e dai suoi alleati: S&P Global Platts, l’ultima a diffondere stime, sostiene che i 10 membri del gruppo impegnati a ridurre la produzione avrebbero già fatto il 91% dei tagli promessi, togliendo dal mercato 1,14 milioni di barili al giorno da ottobre.
Lo sforzo è stato solo parzialmente vanificato dai 290mila bg in più estratti da Libia, Nigeria e Iran (e dai 400mila bg rimessi in produzione nello stesso periodo dai rivali dello shale oil Usa).
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