In Libia la pax petrolifera è già finita. Due tra i maggiori porti della Cirenaica, El Sider e Ras Lanuf, sono al centro di combattimenti dopo essere stati conquistati venerdì scorso dalle Brigate per la difesa di Bengasi.
Il gruppo di ispirazione islamica, ritenuto collegato ad Al Qaeda, sta resistendo ai bombardamenti dell’Esercito nazionale di liberazione del generale Khalifa Haftar, vicino al parlamento di Tobruk, e la situazione ha già costretto a ridurre le estrazioni di greggio nel Paese: da oltre 700mila barili al giorno si sarebbe scesi intorno a 650mila bg.
Le quotazioni del barile per il momento non registrano scossoni. Dopo aver dato una netta sforbiciata alle posizioni rialziste (con una riduzione del 6,4% dell’esposizione netta lunga nell’ultima settimana di febbraio) gli hedge funds hanno continuato a ritirarsi, forse condizionati dalla riduzione al 6,5% dell’obiettivo di crescita in Cina. E il Brent ha chiuso quasi invariato a 56,01 $.
Ma gli ultimi sviluppi evidenziano come le dinamiche sui mercati petroliferi possano cambiare rapidamente, condizionando gli scenari: un nuovo crollo della produzione in Libia amplificherebbe l’azione dell’Opec, causando in breve tempo un forte deficit di offerta.
Non sono però gli imprevisti, ma l’eccessiva cautela delle compagnie petrolifere a preoccupare l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), che ieri ha lanciato un allarme sulla possibilità che il prezzo del petrolio torni a impennarsi già nel 2020, quando l’offerta potrebbe rivelarsi insufficiente.
I tecnici dell’agenzia Ocse non si lasciano incantare dall’auto elettrica e nel rapporto di medio termine pubblicato ieri respingono la teoria, sempre più diffusa, che i consumi di greggio si stiano avvicinando al declino. «Non vediamo un picco della domanda a breve – ha avvertito Fatih Birol, direttore dell’Aie – e a meno che gli investimenti non rimbalzino nettamente a livello globale, all’orizzonte si profila un nuovo periodo di volatilità dei prezzi».
L’Aie prevede che nei prossimi 5 anni la crescita della domanda di greggio si manterrà robusta, con un incremento medio di 1,2 mbg l’anno, arrivando a superare la soglia dei 100 mbg nel 2019 per arrivare a 104 mbg nel 2022.
Lo shale oil in effetti si sta riprendendo: grazie a riduzioni di costo quasi doppie rispetto a quelle ottenute nei giacimenti convenzionali (-30% nel 2015 e -22% nel 2016) la produzione risalirà di 500mila bg quest’anno, mentre entro il 2022 potrà aumentare di 1,4 mbg col prezzo del barile intorno a 60 $ e addirittura 3 mbg se si tornerà a 80 $ e più.
Ma lo shale oil – su cui ormai sta scommettendo in modo quasi esclusivo anche una major del calibro di ExxonMobil – non sarà sufficiente, avverte l’Aie, che fuori dell’Opec (e tolti gli Usa) al momento vede prospettive di crescita significative solo in Brasile, Canada e Kazakhstan.
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