«Il rischio della disoccupazione tecnologica c’è, ma è per chi non coglie l’occasione di una rivoluzione che è in atto ed è inevitabile». È il pensiero di Alberto Bombassei, presidente di Brembo, riguardo al tema dell’impatto delle nuove tecnologie sul lavoro. Un argomento rispetto al quale l’imprenditore aggiunge: «Quante volte in anni recenti abbiamo dovuto affrontare il dibattito sulla perdita dei posti di lavoro a causa della delocalizzazione? La Brembo ha stabilimenti in tutto il mondo, indispensabili per fornire il mercato globale dell’ automotive, ma ha continuato ad assumere in Italia. Oltre 400 persone negli ultimi due anni. E questo perché abbiamo investito su innovazione ed eccellenza. Ma non avevamo alternative. Quindi: chi ci crede investirà sulla crescita e non penalizzerà il lavoro. Gli altri non ridurranno l’occupazione a causa della digitalizzazione del sistema produttivo ma, probabilmente, perché non riusciranno più a stare sul mercato. In parole povere, rischieranno di chiudere».
Spesso si parla di automazione. In realtà il vulnus centrale pare la digitalizzazione dell’economia. La disintermediazione di molte attività è un’opportunità ma anche un grave rischio…
È forte la responsabilità delle imprese più grandi che devono accompagnare la loro filiera di fornitura nell’adeguamento al nuovo modello digitale sul sistema produttivo. In tal senso il piano del Governo promosso dal ministro per lo Sviluppo economico Carlo Calenda è un’opportunità per tutti. Va sfruttato anche dalle imprese più piccole.
Lei richiama il ruolo della grande impresa. Questa tuttavia non è sempre presente…
In parte è vero. Non c’è, da parte delle grandi famiglie imprenditoriali, lo stesso impegno che c’era nel passato. Si tratta di una dinamica dovuta, essenzialmente, alla sfiducia nel sistema-Paese. Alla mancanza di vera concorrenza. Un circolo vizioso che, alla fine, rischia di dare vita ad un tessuto industriale sempre più asfittico. Gli imprenditori, invece, hanno la responsabilità di fare crescere il Paese. In particolare le grandi società.
Non è un problema, come si è spesso detto, anche di mancanza di capitali?
Non lo credo. In questo periodo di tassi bassi anche le società piccole, se bene gestite ed efficienti, riescono a trovare i finanziamenti. Ricordo, ad esempio, le multinazionali tascabili che puntano sull’export, che investono in ricerca e sviluppo, nell'innovazione.
Quindi, per Lei, non c’è un tema di capitalismo senza capitali: eppure, nello stesso piano del Governo, diversi interventi a sostegno dell’industria 4.0 sono, ad esempio, sulla fiscalità. Non c’ un’accelerazione nello stanziamento di fondi…
Al di là che, lo ribadisco, in questo momento trovare i finanziamenti non è un grande problema, la logica di fondo del piano è che sono gli imprenditori a sapere come e dove si deve investire. La disoccupazione non si combatte per decreto bensì con la crescita economica. Sono le aziende che devono aumentare di dimensione anche grazie all'innovazione.
Già, l’innovazione. Ogni volta che si parla di tecnologia e disoccupazione il mantra è: formazione culturale, soprattutto scientifica. Non c’è il rischio di affidamento su di uno strumento importante ma insufficiente di fronte a fenomeni di simile portata?
Io credo che il ruolo della scuola, della formazione sia fondamentale. In particolare sottolineo due punti. Il primo riguarda le università. Il livello in Italia in generale è buono. Tuttavia bisogna che gli atenei trovino una loro maggiore specifica vocazione. Un settore su cui puntare ed eccellere. La specializzazione è essenziale per competere nella globalizzazione. Il secondo elemento, invece, è quello di dare importanza agli istituti tecnici. Anche qui, nel nostro Paese, si trovano realtà di alto livello. Ciò detto bisogna spingere sulla formazione integrata. L’operaio, ormai, deve avere competenze, ad esempio, d’informatica. Altrimenti avrà difficoltà a trovare lavoro nella “realtà aumentata” dell’industria 4.0.
Il tessuto industriale italiano è costituito da molte piccole imprese. In un mercato globalizzato, la dimensione aziendale non è un limite che impedisce di sfruttare l’innovazione?
Piccolo è bello è uno slogan stonato ormai oltre da un decennio. L’ho sostenuto anche in Confindustria quando non tutti sembravano convinti che questa caratteristica del nostro sistema industriale stesse diventando un grande limite allo sviluppo. L’ho detto prima: la defiscalizzazione sugli investimenti produttivi è un’opportunità unica, anche se non soprattutto per le imprese più piccole. Certo non possiamo, da un giorno all’altro, annullare la vocazione italiana alle imprese famigliari. Tuttavia il sistema delle “reti”, in questo senso, può contribuire fortemente a creare una rappresentatività che è annullata dall’eccessiva micro-imprenditorialità. Industria 4.0 richiede la presenza di conoscenze e figure professionali nuove. Questo non significa che tutti debbano dotarsi, ad esempio, di un manager per il commercio estero. Attraverso le reti d’impresa si possono supplire a molte delle carenze che diventano sempre più evidenti man mano che ci inoltreremo nel quarto paradigma. È il momento di giocare d’anticipo e farsi trovare pronti e coalizzati.
Perché ogni volta che si affronta una fase d'innovazione tecnologica la reazione di molti è di paura o timore?
La responsabilità è diffusa. Certo il populismo che sta attraversando l’Europa non aiuta la gente a superare questo timore. In Italia, poi, larga parte della politica non ha mai considerato le imprese come un patrimonio da difendere. Ma anche gli imprenditori hanno le loro responsabilità. Vedo sempre meno imprenditori disposti a investire e rischiare risorse e impegno.
Ma Lei è favorevole al reddito di cittadinanza?
Situazioni di grave difficoltà economica devono essere affrontate. Ciò detto, in generale, non credo in simili soluzioni. Si tratta di meccanismi che disincentivano la ricerca del lavoro. Certo, la sfida che un giovane ha davanti è grande: deve interpretare quale sarà il lavoro nel futuro. Ma questa la si vince, anche, puntando sulla formazione, sulla creazione di proprie competenze.
In un simile scenario le parti sociali recitano ancora un ruolo effettivo?
Ho già avuto modo, in passato, di affermare la necessità per i cosiddetti corpi intermedi, di adeguarsi ai nuovi bisogni che la società impone. Oggi occorre far fronte alle necessità di una componente fondamentale della forza lavoro rappresentata poco e male: quella dei giovani; e più passa il tempo più la mancanza di rappresentanza dei più giovani, sia sindacale sia politica, aggraverà il gap di produttività già molto sentito nel nostro Paese. Il ruolo delle parti sociali va, dunque, ripensato come una mediazione di chiave moderna, che tenga conto di un perimetro lavorativo ormai non sintetizzabile solo nei contratti di categoria, ma che include una varietà di forme di lavoro a cui anche la politica (e finalmente sta iniziando a farlo, nonostante le critiche) deve far fronte con nuove chiavi di lettura.
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