Digitalizzazione dell’economia. Un fenomeno che ha un forte impatto sociale. In particolare la vita quotidiana di tutti noi è sempre più intermediata da oggetti tecnologici che usiamo ma non conosciamo. Il che crea problemi, anche d'instabilità sociale..
«L’affermazione - sottolinea Carlo Sini, accademico dei Lincei e filosofo che ha approfondito il tema del rapporto tra uomo e macchina - presuppone un’impostazione che non condivido».
Vale a dire?
Si pensa che l’uomo sia da una parte e lo strumento, la tecnologia in senso lato, dall’altra. Si tratta di una dualità che non ha ragione d’essere e di cui bisogna liberarsi. Il cammino dell’uomo, dello spirito, è al contrario tutt’uno con lo strumento.
Può spiegarsi meglio?
Il primo strumento dell’uomo è stato il linguaggio. Noi stessi lo utilizziamo comunemente, tutti i giorni. E tuttavia non lo conosciamo. Un esempio? Basta pensare all’etimologia dei vocaboli, all’evoluzione storica delle parole. Dinamiche sconosciute ai più. Nel passato, però, questo tipo di ignoranza non ha comportato effetti devastanti.
E quindi?
Bisogna spostare il focus dell’analisi. A fronte di un uso dello strumento che può essere solamente cieco il problema è un altro: che lo strumento stesso è determinato, e subordinato, agli interessi economici. Questo è il vero vulnus. Non si può conoscere tutto. Le persone non avranno mai la competenza per sapere come realmente funzionano i componenti, ad esempio, di un cellulare. Quindi la vera sfida è consentire all’uomo, anche tramite la sua formazione culturale, l’uso dello strumento, sottraendolo però ai soli fini economici e del profitto. Un compito molto importante che è della politica. Quella, ovviamente, con la P maiuscola e non degli attuali partiti che hanno abiurato al loro compito di elaborazione del pensiero.
Il discorso è affascinante. Non rischia, tuttavia, di essere un bell’esercizio di retorica? In fin dei conti la tecnologia, tra le altre cose, impatta sull’organizzazione del lavoro e, a detta di molti, crea disoccupazione…
La mia non è retorica. Sono ben consapevole del concreto problema dell’occupazione. È un tema serio e va affrontato. I lavoratori, già in difficoltà, non possono essere lasciati da soli. In tal senso il quesito è: chi se ne occupa? L'impresa? Difficile ipotizzare questa soluzione. Gli stessi sindacati, poi, hanno sempre minore capacità di aggregazione. In realtà c'è bisogno di una revisione globale e sociale del lavoro. Di ripensarlo. Si devono strutturalmente creare nuove forme di lavoro.
Ad esempio?
Attività socialmente utili quali, tra le altre, la manutenzione e il ripristino di vie cittadine. Oppure servizi di “inclusione” del cittadino. Ed ecco che proprio l’approccio al tema della tecnologia che ho descritto sopra diventa essenziale. Altro che esercizio di retorica! Lo strumento, sottratto alla pura finalità economico-finanziaria, è la leva su cui creare un lavoro che non sia volto al solo profitto. Solamente ragionando in questi termini può tentarsi una risposta di lungo periodo al problema della disoccupazione tecnologica.
Può essere, seppure il dubbio sull’argomentazione retorica rimane. Al di là di ciò: chi alla fine, finanzia il tutto?
Lo Stato. John Maynard Keynes diceva che ciò di cui il privato non ha interesse deve farsene carico lo Stato.
Una soluzione che pare difficile, soprattutto a fronte dei problemi di debito pubblico che affliggono l'Italia?
È sempre la stessa obiezione: troppo debito, non ci sono i soldi. Io ribadisco che bisogna uscire dalla stretta logica della domanda e dell’offerta. Si può, in determinati casi, abbandonare l’idea della tesaurizzazione della moneta, intesa come l’accumulo di ricchezza tramite essa. A fronte di questo può pensarsi a forme di moneta locale oppure di una divisa a tempo legata alla realizzazione di un lavoro, di un progetto. In questo modo il tema del rapporto robot-lavoro può trovare delle soluzioni. Anche perché, continuando di questo passo, molte forme di “ammortizzatori sociali” rischiano di esaurire la loro efficacia. E saranno dolori.
Può spiegarsi meglio?
Basta pensare alla famiglia e a quello che questa, di fronte alla disoccupazione giovanile, ha rappresentato. Fino ad oggi molti ragazzi che non sono riusciti a trovare un lavoro sono stati aiutati dai genitori e dalle pensioni dei nonni. Crediamo veramente che questo sistema durerà in eterno? L’invecchiamento della popolazione, soprattutto in Italia, sempre di più farà venire meno simili meccanismi di salvaguardia. O cambiamo radicalmente il nostro modo di ragionare oppure sarà difficile risolvere i problemi. In primis quello del lavoro.
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