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rivoluzione robotica e occupazione

Cingolani (Iit): « “Scienziati” fin da sei anni. Bisogna metabolizzare l’innovazione»

Roberto Cingolani (Imagoeconomica)
Roberto Cingolani (Imagoeconomica)

«Nella storia è sempre accaduto: l’automazione riduce il lavoro ad alto tasso di routine». Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia, non si stupisce di fronte al tema dell’impatto dell’innovazione sull’occupazione. «Anche perché- aggiunge lo scienziato -, al di là dell'incremento della produttività, la tecnologia ha sempre permesso la creazione di nuove filiere produttive. Le quali, a loro volto, hanno dato la possibilità di rilanciare l’occupazione».

L'attuale allarme sulla disoccupazione tecnologica è, quindi, eccessivo?
Non dico questo. Il meccanismo sopra descritto di creazione di nuove occupazioni oggi, purtroppo, trova molta più difficoltà nel concretizzarsi.

Perché?
In primis la competenza richiesta per “rimettersi” sul mercato del lavoro è indubbiamente maggiore rispetto al passato. La barriera all’ingresso si è alzata notevolmente. Inoltre la velocità di diffusione della tecnologia, e dei suoi effetti, è molto più alta rispetto a qualche tempo fa. Si tratta di due condizioni che rendono il problema in oggetto più complesso da risolvere.

Quali, allora, le possibili soluzioni?
Credo che il ragionamento si debba fare a monte. Cioè: non si tratta solamente di gestire il tema lavoro. Bisogna avere un approccio globale.

Vale a dire?
È necessario affrontare il tema della formazione culturale del cittadino. In primis sono convinto sia fondamentale investire nella scuola primaria. Già dai sei anni i bambini devono iniziare ad avere un modello di apprendimento che comprenda, anche, la seguente logica di fondo: ho un problema devo trovare il modo per risolverlo. Non parlo di competitività, sia ben chiaro! Piuttosto di un sistema che consenta di fare proprio il processo mentale dell’innovare.

Il focus si ferma alla scuola primaria o dell'obbligo?
No. Deve puntarsi, anche per evitare di avere persone di serie A e di serie B, ad una sorta di formazione continua che permetta di acquisire e aumentare le proprie competenze. Soprattutto tecnico-scientifiche. In tal senso, finito il periodo della scuola dell’obbligo, un individuo non può terminare la sua fase di apprendimento. Questa deve proseguire.

Detto così pare una bella affermazione di principio. Ma, ad esempio, chi si fa carico di questa complessa operazione?
Credo si debba puntare sulla compartecipazione tra pubblico e privato. Io sono favorevole a partnership tra aziende e Stato in modo da garantire la formazione continua. Certo: sono consapevole che si tratta di un progetto complesso e difficile. E, tuttavia, di fronte a fenomeni di tale profondità si deve ragionare a livello di sistema. Il rischio è trovarci in un momento in cui la situazione è divenuta ingestibile. Ciò detto, però, l’approccio globale non si limita alla formazione.

Cos’altro, allora?
È necessario arrivare a metabolizzare le nuove tecnologie, avendo in mente una società dove le innovazioni hi-tech consentono di creare, e migliorare, modelli di sviluppo sostenibili. Mi spiego: se pensiamo all’automazione come puro e semplice strumento per incrementare il Pil locale di uno Stato andiamo da nessuna parte. Al contrario, nel momento in cui la tecnologia permette di ridurre, ad esempio, l’impronta idrica (il consumo di acqua, ndr) del processo produttivo allora l’automazione acquista senso. L’uomo, non bisogna dimenticarlo, rispetto al pianeta terra è paragonabile ad un parassita. Stiamo consumando il pianeta e la tecnologia, in tal senso, deve permetterci da un lato di limitare quest'impatto; e, dall'altro, di creare posti di lavoro anche finalizzati a simili obiettivi.

Al di là di ciò, tornando a problematiche più dirette, il fenomeno in oggetto può dare luogo ad instabilità sociale. In Francia degli operai hanno occupato una fabbrica per protestare proprio contro l'automazione…
I rischi ci sono, indubbiamente. È per questo che, come ho sottolineato prima, bisogna intervenire. I problemi, tuttavia, non vanno sopravvalutati.

Ma, nemmeno, minimizzarli…
Certo. Invito, tuttavia, ad un’analisi meno superficiale. Lo strumento-robot che aumenta la performance corporea dell’uomo è sempre esistito: dalla clava alla bicicletta fino alla macchina scavatrice. Si tratta di un fenomeno che, nella storia, non ha creato troppi disagi né troppe paure. Una situazione, in linea di massima, simile a quella di altri strumenti quali, ad esempio, il telefono che ha consentito di migliorare il collegamento tra esseri umani. Oppure dello stesso computer che, per quanto abbia modificato la nostra vita, non è stato percepito come un “pericolo”. Il discorso, invece, cambia se inseriamo la potenza di calcolo, di fatto il computer, all’interno della macchina scavatrice. Qui, infatti, entriamo nell’ambito di quelle che si definiscono “embodied intelligence”. Vale a dire: le macchine intelligenti. In questo caso ci sentiamo minacciati; abbiamo paura.

E quindi?
Dobbiamo affrontare il fenomeno, oltre che sul piano dell’occupazione, anche su altri due livelli. Il primo è quello di costruire un “impalcatura”, mi lasci dire etica, giuridica e sociale che consenta di gestire la nuova realtà. Le faccio un esempio. Tra un po' di anni saranno diffuse le macchine a guida automatizzata. I computer che le gestiranno saranno, evidentemente, “guidati” dalla regola di non fare male al guidatore e alle altre persone (ad esempio i pedoni). È chiaro che potrà capitare l’ipotesi in cui la salvaguardia contemporanea di questi soggetti non sarà possibile. Di conseguenza il computer dovrà definire uno scenario probabilistico che minimizzi il danno. Ebbene: un simile meccanismo è difficile da accettare. Scelte di questo tipo non possono basarsi solamente su calcoli di probabilità di riduzione del danno. Coinvolgono aspetti etici, sociali, giuridici complessi. Di qui la necessità di affrontare adesso il tema per non essere colti impreparati.

E il secondo livello di discussione?
Riguarda il controllo delle piattaforme hardware su cui tutti il mondo della digitalizzazione “corre”. I router, i cavi, i server. Di chi sono proprietà? Chi li gestisce? È un tema enorme. Tutti parlano dei software, delle applicazioni. In realtà è essenziale la gestione dell’hardware. Anche con riferimento al mantenimento di forme di società democratiche. Se ci dimentichiamo questi fattori rischiamo. Non c’è solo l’impatto sul lavoro.

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