«La modifica delle tipologie di lavoro? Nel breve periodo può essere più rapida di quanto lo sia la capacità di adeguarsi alle nuove occupazioni. Quindi il rischio della disoccupazione tecnologica esiste. Ma è nell’immediato. Sul più lungo periodo l’innovazione tecnologica può, e deve, trasformarsi in un’opportunità» Così Aldo Fumagalli Romario, presidente e amministratore delegato di Sol, risponde sul tema della nuova rivoluzione robotica. «A ben vedere – aggiunge l’imprenditore – è difficile prevedere quali siano le attività maggiormente colpite dal fenomeno. Certo: diversi studi danno delle indicazioni. Inoltre la digitalizzazione, che spinge sulla disintermediazione dei servizi, impatterà su settori quali, ad esempio, il bancario o la pubblica amministrazione. E, tuttavia, il fatto che i robot spesso sostituiscano singole funzioni rende arduo prevedere quali lavori effettivamente spariranno e quali, invece, verranno creati».
Lei distingue tra automazione robotica e digitalizzazione…
L’automazione della filiera produttiva manifatturiera Italia, non è un processo nuovo. Va avanti, con maggiore o minore intensità, da almeno 30 anni. Si tratta di un fenomeno positivamente affrontato con la formazione degli addetti. Diversa, invece, è la digitalizzazione dell’economia. È un passaggio molto più ampio che coinvolge molteplici livelli: dalla diffusione di Internet allo sfruttamento dei big data fino alla disintermediazione dei servizi. È ovvio che le due “realtà” siano collegate. E però la seconda, se non altro per la velocità con cui prende piede, ha un impatto maggiore.
Quali, allora, le strategie per fare fronte alla dinamica in oggetto?
Le imprese devono, a mio parere, ripensare la filiera produttiva. Nel mio settore, ad esempio, il modello del passato era di avere dei grandi impianti per la produzione dei gas. Questi, poi, venivano trasportati presso i clienti. Oggi tutto è cambiato. La domanda del mercato ha un ruolo preminente, cui la produzione deve in qualche modo adeguarsi. Quindi, da una parte, è necessario avere molti più piccoli impianti vicini alla clientela; e, dall’altra, anche con l’aiuto della digitalizzazione, bisogna gestire un’offerta che, a fronte della volatilità delle richieste, giocoforza dev’essere flessibile.
Questo riguardo all'impresa. Rispetto, invece, al lavoratore e all'occupazione?
Io farei una distinzione tra chi il lavoro già ce l’ha e chi, invece, deve trovarlo. Con riferimento ai primi, sarà banale dirlo, essenziale è la formazione. Tutti, dal dirigente all’impiegato fino all’operaio, devono continuamente aumentare le proprie competenze per essere in grado di esprimere innovazione continua. Un processo di cui le aziende devono farsi carico, anche finanziariamente. Senza dimenticare, ovviamente, il supporto dello Stato, soprattutto attraverso le “articolazioni” delle Regioni. E, poi, gli stessi lavoratori. In tal senso può ricordarsi, ad esempio, Fondimpresa.
Quando si parla di disoccupazione tecnologica spesso si fa riferimento alle mansioni meno qualificate. In realtà il tema può riguardare gli stessi manager…
Non mi sorprende che l’intelligenza artificiale possa, in un futuro, arrivare a “influenzare” attività che oggi consideriamo monopolio esclusivo dell’uomo per il loro alto contenuto di specializzazione. D’altra parte, già oggi, funzioni anche complesse della chirurgia vengono sempre di più affidate a robot intelligenti. Questo, però, non significa che il medico, o il manager, finiranno sullo sfondo. Tutt’altro! Da un lato, sarà sempre l’essere umano a coordinare e gestire l’intervento dell’automa; dall’altro, però, gli stessi manager o medici dovranno aumentare le loro competenze per operare nella nuova realtà e coglierne le opportunità emergenti.
Fin qui chi lavora in un'impresa: chi, invece, ne è fuori?
È fondamentale fare leva sulle proprie capacità d’inventiva, d’innovazione. Bisogna essere sempre più imprenditori di se stessi. Le faccio un esempio: di recente abbiamo avviato una collaborazione con uno spin-off del Politecnico di Milano nel settore biomedicale. Una piccola realtà dove alcuni giovani hanno messo a punto un algoritmo abbinato ad una apparecchiatura elettromedicale. Ebbene la soluzione in oggetto, con riferimento a patologie nell’attività respiratoria, permette di comprendere, da un lato, se la cura che il paziente sta facendo è adeguata; e, dall’altro, se è in arrivo una fase acuta, al fine di prevenirla. Si tratta di un piccolo caso, ma gli esempi potrebbero essere molti altri.
La sua considerazione, tuttavia, riguarda soggetti altamente specializzati. Chi non ha simili competenze rischia di essere tagliato fuori..
Ne sono consapevole! Ma il mio messaggio è più generale. Bisogna, come ho già detto, che tutti, dai livelli più bassi alle più alte specializzazioni, puntino con forza sulla formazione. Non solo. È necessario che il “germe” dell’innovazione, soprattutto in azienda, venga diffuso il più possibile. Il rischio, altrimenti? Quello di essere estromessi da un fenomeno come la rivoluzione robotica che non può essere arrestato.
Ammesso, e non concesso, che quest'impostazione possa concretizzarsi, tra i presupposti c'è comunque l’esistenza di sistemi meritocratici che in Italia sono rari…
Non condivido la sua generalizzazione. Nelle aziende di successo i meccanismi premiali esistono, eccome! Laddove la meritocrazia è inesistente, oppure solo una finzione, il business non funziona. Tanto che i giovani capaci e in gamba cercano altri posti di lavoro.
Ma questi non vengono di fatto limitati proprio da fenomeni come l’automazione di cui stiamo discutendo?
Il tema è più complesso. Lo ribadisco: il problema è nel breve periodo. Poi, nel medio-lungo, l’innovazione tecnologica permette la creazione di nuove forme d’occupazione. Pensiamo, ad esempio, al controllo delle reti per il trasporto del gas. Qui i big data, oppure sistemi satellitari, sono sfruttati non solo per analizzare lo stato dell’arte dei tubi. Bensì anche per un’attività predittiva sul guasto stesso. Un sistema che, da una parte, consente notevoli risparmi; e, dall’altra, richiede la presenza di nuove qualifiche, di impiegati specializzati.
Diversi esperti, tuttavia, sottolineano che l’incremento della produttività legato alla tecnologia è più che proporzionale rispetto alla creazione di nuova occupazione. Il che è un problema…
L’analisi deve essere più articolata. Negli Stati Uniti, ad esempio, la produttività è cresciuta molto con l’innovazione hi-tech. Ma l’occupazione non è crollata. Anzi è salita. Certo: può dirsi che la sua qualità è peggiorata. E, tuttavia, non credo si possano costituire degli stretti meccanismi di causa-effetto tra questi fenomeni. Guardiamo, ad esempio, all’Italia. Qui, come ho spiegato, l'automazione della filiera produttiva, seppure un po’ a macchia di leopardo, c'è stata. Eppure sul fronte della produttività siamo ancora indietro.
Perché?
Perché incidono altri fattori: dall’eccessivo costo del lavoro ad una burocrazia asfissiante fino ai sistemi di comunicazione non all’altezza. Sono questioni di sistema che devono essere risolti dalla politica. Altrimenti non si va da nessuna parte.
Diversi esperti indicano che la sempre maggiore automazione nell'attività produttiva può portare a instabilità sociale. Un rischio reale?
Solo se viene a mancare l’intervento che consenta un’equa re-distribuzione della ricchezza. Si tratta di un intervento che spetta alla politica, ai Governi. In tal senso penso che, ad esempio, la tassazione del reddito delle grandi società del web sia un passo nella giusta direzione.
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