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Intervista a Birol (Aie): «Auto elettrica? C’è troppo entusiasmo. Il petrolio non è al declino»

Al vertice Aie. Fatih Birol
Al vertice Aie. Fatih Birol

L’auto elettrica? «C’è troppo entusiasmo», avverte Fatih Birol, direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), in un’intervista al Sole 24 Ore: l’enfasi eccessiva rischia infatti di «lanciare un segnale sbagliato», distraendo fondi e attenzione da alcune importanti debolezze del sistema energetico, come il problema dei camion, che inquinano più del carbone e in Europa non hanno ancora standard di efficienza. Oppure la scarsità di investimenti nella ricerca sulle tecnologie pulite, che non si esauriscono nei motori a batteria: tra pubblico e privato la cifra è ferma a 37 miliardi di dollari l’anno tra il 2012 e il 2015, «noccioline», denuncia Birol, anticipando il risultato di un rapporto che l’Aie presenterà a giorni. «Basti pensare che le tre maggiori società IT investono oltre 40 miliardi l’anno in ricerca e sviluppo».

Gli annunci sui veicoli a batteria però si intensificano: Volvo dal 2019 avrà solo modelli elettrici o ibridi, la Francia vieterà la vendita di auto a benzina o diesel entro il 2040. La diffusione non potrebbe superare le attese?
È vero che nel settore dei veicoli per passeggeri è in corso una grande trasformazione. I motori sono sempre più efficienti e sulle strade iniziamo a vedere le auto elettriche: l’anno scorso hanno raggiunto il traguardo di 2 milioni, di cui la metà in Cina. Ma stiamo parlando solo dello 0,2% del parco circolante. E comunque la crescita della domanda di petrolio non viene più dalle auto. Per questo siamo convinti che continuerà per molti anni.

Le auto non contano più nulla per la domanda di petrolio? 
In futuro il 40% della crescita della domanda verrà dai camion e una percentuale analoga dall’industria petrolchimica. Il resto da aviazione e trasporti marittimi. Per i veicoli passeggeri prevediamo consumi stabili o in leggero declino. Ma nonostante questo l’opinione pubblica e le politiche energetiche continuano a focalizzarsi esclusivamente sulle auto. Ma lasciamo da parte le previsioni: negli ultimi 15 anni la crescita della domanda di petrolio è dipesa in parti uguali dai camion e dalle auto, eppure più di 40 Paesi hanno standard di efficienza per le auto o programmi per diffondere l’ auto elettrica, mentre solo 4 – Usa, Canada, Giappone e Cina – hanno analoghi standard per i camion.

E l’Europa?
Adesso si sta muovendo. Lunedì a Bruxelles ho visto Sefcovic (il commissario europeo per l’Unione energetica, Ndr) e mi ha aggiornato: è pronta una bozza di direttiva, per implementare standard di efficienza entro il 2018.

La vera roccaforte del petrolio resterà quindi la petrolchimica.
Non vedo grande attenzione politica nemmeno in questo caso, mè anche vero che è un settore su cui è difficile influire. Per l’auto possiamo trovare alternative, ma per camion, petrolchimica e aviazione è molto difficile.

Il gas non è un’alternativa?
Si, ma in piccola parte e solo per i camion o le navi.In Paesi con grandi risorse di gas a basso costo, come gli Usa dello shale, può dare anche un contributo nella petrolchimica. Ma a livello globale sarà poca cosa, non basta a cambiare la tendenza di crescita della domanda petrolifera.

La crisi ha fatto crollare gli investimenti nel settore Oil & Gas. Rischiamo di non avere abbastanza petrolio in futuro? 
Potrebbe succedere, specie se la domanda continua a crescere come ora. Anche per questo è importante dire che talvolta leggiamo con troppo entusiasmo i numeri dell’auto elettrica: ci porta a pensare che il petrolio è al declino, ma non è una conclusione corretta e dà un segnale sbagliato a compagnie e Paesi produttori. Gli investimenti sono crollati per due anni consecutivi, una fatto senza precedenti . E per quest’anno non ci aspettiamo una forte ripresa, ma li vediamo stabili. Con lo shale oil, comunque, è cambiato il modo di investire.

In che senso?
Le compagnie sono diventate più disciplinate nell’impiego del capitale e qualunque progetto oggi è orientato su un ciclo di investimento più breve di almeno 2 anni rispetto al passato: se prima si ragionava in media su 6 anni, oggi sono diventati 4.

Per allinearsi allo shale?
Per competere con lo shale. La risposta alle variazioni di prezzo è più rapida e si guarda meno al lungo periodo: l’industria è diventata miope. Niente è più come prima per chi cerca di gestire il mercato...

Si riferisce anche all’Opec?
Esattamente. Se tagliano la produzione, i prezzi salgono ma questo provoca la risposta dello shale oil, che riporta giù i prezzi. Lo shale ha trasformato l’industria e anche della geopolitica del petrolio.

Dove va il mercato? Il prezzo del greggio è molto volatile...
Volatilità è il nuovo nome del gioco. Abbiamo bisogno di imparare a conviverci. Se anche ci fosse un ulteriore taglio della produzione, il prezzo del petrolio salirebbe, lo shale ripartirebbe e il prezzo calerebbe. Su e giù, su e giù.

Quindi sarà così per sempre, col barile tra 50 e 60 dollari? 
Almeno nel prossimo futuro sì. Continueremo a vedere grandi oscillazioni di prezzo.

E lo shale avrà sempre la stessa vitalità?
No, non penso. È molto legato al denaro facile, agli sweet spots. Comunque gli Usa hanno ormai conquistato un ruolo rilevante sui mercati internazionali. Si stanno imponendo in modo molto forte, con il petrolio e forse ancora di più con il gas. L’Europa ne ha avuto un grande beneficio: utilizza solo il 23% della capacità di rigassificazione e nei prossimi 4 anni, quando scadrà il 65% dei contratti a lungo termine coi fornitori tradizionali, avrà un’enorme foza negoziale.

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