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Gli Stati Uniti sfidano anche con l’export i big di petrolio e gas

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«dominio globale»

Gli Stati Uniti sfidano anche con l’export i big di petrolio e gas

Nel giro di cinque anni gli Stati Uniti potrebbero esportare più gas del Qatar o della Norvegia e in un tempo ancora più breve superare il Kuwait e la Nigeria nell’export di petrolio, riuscendo a inviare all’estero oltre 2 milioni di barili al giorno fin dal 2020.

Non si tratta dell’ennesima iperbole di Donald Trump, ma delle previsioni – fresche di stampa – di analisti che il mercato tiene in grande considerazione: nel primo caso l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), che nel suo rapporto annuale sul gas, pubblicato ieri, ha dedicato particolare attenzione a l fenomeno Usa, mentre per il petrolio le previsioni sono di Pira Energy, la società di Gary Ross, considerato da molti un guru del settore.

Washington ha inviato all’estero il suo primo carico di Gnl soltanto a febbraio dell’anno scorso e tuttora dispone di un solo impianto di liquefazione, quello di Cheniere Energy a Sabine Pass, sulla costa del Texas. Ma l’Aie è convinta che alla rivoluzione dello shale gas, che non ha ancora perso la sua spinta, sta per seguire una «seconda rivoluzione», che entro la fine del 2022 porterà gli Usa ad aumentare di circa sei volte la capacità di esportazione, fino a 106,7 miliardi di metri cubi (Bcm) all’anno.

Nel gas liquefatto soltanto l’Australia avrà una capacità maggiore (salendo nello stesso periodo da circa 88 a 117,8 Bcm), mentre il Qatar potrebbe essere superato, fermandosi a 104,9 Bcm: secondo l’Aie i progetti di espansione annunciati di recente da Doha non saranno realizzati prima del 2022.

La potenza emergente degli Stati Uniti nel settore del gas è ancora più evidente quando si considerano tutti i fornitori, anche quelli che esportano principalmente via gasdotto: l’anno scorso la Norvegia ha esportato in tutto 116,1 Bcm, la Russia 204,8 Bcm, di cui 190,8 Bcm via pipeline (dati Bp).

In prospettiva non sarà comque un mercato facile per nessuno dei produttori. Il surplus di Gnl è destinato ad aumentare ancora: nel 2022 ci sarà capacità di esportazione per 650 Bcm, in eccesso per 190 Bcm rispetto alla domanda.

Eppure la domanda di gas (Gnl e non) dovrebbe crescere di oltre il 10% nei prossimi 5 anni, secondo l’Aie, grazie a una forte crescita dei consumi dei Paesi emergenti (soprattutto la Cina) e al traino – per la prima volta nella storia – degli impieghi industriali piuttosto che della generazione elettrica.

La responsabilità del crescente surplus è soprattutto degli Stati Uniti, già oggi primi produttori mondiali di gas, che tra cinque anni conrolleranno il 22% dell’output mondiale, con 890 Bcm all’anno (ben 140 Bcm più di adesso).

Anche il petrolio «made in Usa» promette di diventare sempre più insidioso per l’Opec e per gli altri concorrenti. Lo shale oil – che già è la causa principale della caduta dei prezzi del greggio – sta raggiungendo ogni angolo del mondo: questa settimana anche l’India ha ordinato un primo carico, mentre la Cina importa già da tempo, con una media di 100mila barili al giorno nei primi cinque mesi di quest’anno (e oltre 180mila bg ad aprile e maggio).

I flussi di esportazione dagli Usa sono molto variabili per ora, legati ai differenziali di prezzo sui diversi mercati e all’andamento dei noli delle petroliere. Ma Washington, che solo a fine 2015 ha liberalizzato l’export di greggio, in diversi periodi quest’anno ne ha spedito all’estero più di un milione di barili al giorno. L’export, che nel 2016 è stato in media di 520mila bg, potrebbe raggiungere 2,25 milioni di bg nel 2020 prevede Pira Energy. Tra i Paesi Opec solo l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Iraq e gli Emirati arabi uniti riescono a esportare di più. Persino il Kuwait l’anno scorso non è andato oltre 2,1 mbg.

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