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Perché il mercato scommette sugli emergenti nonostante la stretta Fed

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i flussi di capitale

Perché il mercato scommette sugli emergenti nonostante la stretta Fed

L’esposizione sui mercati emergenti dei grandi fondi di investimento è oggi ai massimi da oltre due anni e mezzo. In un suo recente rapporto l’Institute of International Finance ha calcolato che la quota di azionario emergente oggi rappresenti in media il 13,4% del portafoglio dei grandi gestori. Si tratta del livello più alto da giugno 2015. È invece ai massimi da settembre del 2014 la quota del portafoglio destinata ai bond emergenti che oggi rappresenta in media l’11,8% del portafoglio dei grandi fondi.

È significativo in particolare quest’ultimo dato se si pensa che proprio il maxi debito in dollari contratto da imprese e governi dei Paesi emergenti è stato a lungo indicato da analisti e addetti ai lavori come una possibile mina per la stabilità dei mercati in un contesto di rialzo dei tassi di interesse da parte della Fed.

Quando quest’ultima nel 2013 parlò per la prima volta di riduzione graduale (tapering in gergo) del suo piano di stimoli monetari il mercato reagì bruscamente vendendo tutte quelle classi di investimento che più di altre avevano beneficiato della politica monetaria ultraespansiva della banca centrale Usa. Uno dei bersagli principali degli speculatori furono proprio i mercati emergenti. Borse, Bond e valute “emerging” sperimentarono allora una pesantissima ondata di vendite. Un trend ribassista che si sarebbe intensificato nel 2014 e nel 2015 quando, all’incognita sulle mosse della Fed, si sarebbero aggiunti due altri elementi di crisi: il collasso del mercato delle materie prime (di cui molti Paesi emergenti sono esportatori) e il rallentamento dell’economia cinese.

Il mercato allora penalizzò molto gli emergenti. La speculazione era che il rallentamento del Pil da una parte e il rialzo dei tassi Usa con contestuale apprezzamento del dollaro dall’altra avrebbe reso difficile se non impossibile il rifinanziamento del maxi-debito in valuta forte contratto da governi e imprese dei Paesi emergenti. Uno scenario fosco che tuttavia non si è concretizzato per una serie di ragioni. In primo luogo perché la crisi delle materie prime è finita. I prezzi del petrolio, e a ruota quelli delle altre commodities, sono ripartiti grazie anche agli accordi raggiunti dai Paesi produttori per tagliare la produzione. In secondo luogo perché in Cina non c’è stato il tanto temuto “hard landing” dell’economia, ossia il rallentamento della crescita. E infine perché il dollaro ha interrotto la sua corsa rialzista. Soprattutto rispetto alle valute emergenti che, nel cambio con il biglietto verde, oggi sono tornate ai livelli del 2011 come dimostra l’andamento dell’indice Msci EM Currency.

La fuga di capitali si è così interrotta e si è verificato il fenomeno opposto. Viste le quotazioni sconto delle azioni e i rendimenti appetitosi dei bond nel 2017 c’è stata una corsa agli emergenti testimoniata dai maxi flussi di capitale registrati dai fondi specializzati. Se il 2016 era stato un anno piuttosto magro in termini di sottoscrizioni nel 2017 i fondi equity emergenti hanno raccolto la cifra netta di 83,8 miliardi di dollari. Il trend si è intensificato in particolare tra la fine del 2017 e le prime settimane del 2018. Dei circa 110 miliardi di dollari di sottoscrizioni nette registrate da fondi comuni ed Etf negli ultimi due mesi - segnala l’IIF - circa un terzo è finito in strumenti specializzati nel segmento “emerging”.

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