Nel gergo freddo e anglofono dei mercati finanziari viene chiamato «buy-back». Ma potremmo anche definirlo «cannibalismo finanziario»: il fenomeno delle società che “mangiano” (cioè ricomprano) le proprie azioni in Borsa, gratificando gli azionisti e sostenendo le proprie quotazioni, sembra stia tornando di gran moda a Wall Street dopo un periodo in calo. Secondo i dati di Goldman Sachs, quest’anno sono infatti già stati annunciati buy-back azionari per 171 miliardi di dollari dalle aziende incluse nell’indice S&P 500. Si tratta del record mai raggiunto a febbraio almeno negli ultimi 11 anni: mai tanti buy-back erano stati annunciati in questa prima parte dell’anno. Solo il 2016 si era avvicinato a questa soglia, ma non aveva superato i 150 miliardi. Ovvio che dopo gli annunci bisognerà aspettare i fatti. Ma questi dati dimostrano che il fenomeno dei buy-back, cioè del riacquisto in Borsa di azioni proprie da parte delle aziende, è tutt’altro che tramontato.
Borse distanti dall’economia
Dal 2009 al 2017, secondo i calcoli di Artemis Asset Management, le sole aziende americane hanno riacquistato in Borsa azioni proprie per un totale di 3.800 miliardi di dollari. Sia nel 2015 che nel 2016, anni da record, hanno speso per comprare i propri titoli e per distribuire dividendi più di quanto abbiano totalizzato come utili. Tante imprese infatti si indebitano, approfittando dei bassi tassi d’interesse, per fare proprio questo: “mangiare” le proprie azioni a Wall Street. Questo fenomeno - giustificato dalle condizioni di mercato e da molte motivazioni finanziarie ineccepibili - in realtà produce almeno due effetti perversi. Che contribuiscono a distanziare i mercati finanziari dall’economia reale. E dal ruolo che le Borse dovrebbero avere: portare risorse nelle imprese, in modo che queste possano investire in ricerca, sviluppo, innovazione. Insomma: in benessere collettivo.
Bomerang numero uno
Il primo effetto “perverso” è squisitamente borsistico. I buy-back alimentano infatti la crescita del listino azionario, gonfiando le quotazioni di Borsa delle stesse aziende che si auto-acquistano azioni. Calcola Artemis Am, che dal 2009 almeno il 30% dei rialzo di Borsa sia attribuibile ai buy-back. Questo si traduce in un immediato beneficio per gli stessi manager, i cui compensi spesso sono in parte parametrati all’andamento di Borsa. Per di più i buy-back vanno ad alterare un parametro molto guardato in Borsa: l’utile per azione (earning per share). Calcola sempre Artemis Am che dal 2012 al 2017 gli utili per azione delle aziende quotate a Wall Street siano cresciuti del 24%: se non ci fossero stati i buy-back, l’aumento sarebbe stato solo del 7%. Insomma: senza questa dose di “cannibalismo finanziario” oggi Wall Street sarebbe diversa da come appare. Per non parlare dei bilanci delle aziende che si sono indebitate per comprare le proprie azioni.
Boomerang numero due
Il secondo effetto “perverso” è sull’economia reale. I buy-back hanno infatti l’effetto di drenare risorse (a beneficio di manager e azionisti), che le aziende potrebbero invece usare per investimenti veri. Quante cose avrebbero potuto fare le corporation Usa se quei 3.800 miliardi li avessero spesi in altro modo? Già William Lazonick della Harvard Business Review qualche anno fa aveva posto l’accento su questo problema. Calcola per esempio Lazonick che negli Usa le medicine costano molto più che in altri Paesi. Le case farmaceutiche si sono sempre difese dicendo che grazie ai prezzi più elevati possono investire in ricerca e sviluppo. Peccato che Pfizer - per fare un solo esempio - dal 2003 al 2012 abbia usato il 71% dei propri utili per buyback e il 75% per pagare dividendi.
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