Che la fase di rialzo goduta dal mercato obbligazionario negli ultimi decenni sia ormai arrivata al capolinea si sente ripetere spesso dai commentatori finanziari già da tempo. È quasi un mantra, così come altrettanto di frequente si viene messi in guardia dei pericoli che si corrono nell’investire in bond. Ma quanto si rischia davvero a riempirsi le tasche di titoli o fondi obbligazionari? E soprattutto, è possibile limitare in qualche modo i danni senza necessariamente eliminare dai propri investimenti una componente che resta comunque necessaria per costruire un portafoglio equilibrato?
Il mix che rischia di essere letale per il piccolo risparmiatore, così come per il grande fondo istituzionale, è costituito da una parte dall’abbassamento dei rendimenti medi dei bond presenti sul mercato e dall’altra dall’elevata durata media finanziaria di quegli stessi prodotti, la cosiddetta duration, all’aumentare della quale si moltiplicano le potenziali perdite in caso di un rialzo dei tassi, magari provocato anche da un atteggiamento di politica monetaria più aggressivo da parte delle banche centrali e di quella Bce che torna a riunirsi questo pomeriggio per decidere sul suo quantitative easing.
Il coccodrillo resta in agguato
Già un anno fa si erano evidenziati i pericoli potenziali per un risparmiatore che si affidasse a un fondo che replica in modo passivo i principali indici obbligazionari ricorrendo all’immagine efficace del coccodrillo che serra le fauci. A dodici mesi di distanza la situazione non è poi cambiata più di tanto. Se prendiamo per esempio l’indice Bloomberg Barclays Euro Aggregate che sintetizza l’andamento dei bond dell’Eurozona, scopriamo che i rendimenti sono sì leggermente saliti, dallo 0,54% allo 0,68%, ma anche la duration si è mantenuta elevata a 6,73 anni da 6,63. Il rapporto fra queste due grandezze è quindi pari a 10, che non è un valore privo di significato perché «indica il numero di anni di guadagni che si rischia di perdere nel caso si verifichi un aumento dei tassi di 100 punti base», spiega Chris Bowie, gestore di TwentyFour Asset Management, la boutique londinese specializzata nel reddito fisso del gruppo Vontobel.
In altre parole, un aumento generalizzato dei rendimenti di un punto percentuale (dall’1 al 2%, per esempio) potrebbe compromettere in un solo colpo 4 anni dei guadagni ottenuti investendo in un generico indice obbligazionario globale, quasi 8 anni quando si parla dei Gilt, i titoli di Stato britannici, e addirittura 10 come si è appena visto nel caso di bond dell’Eurozona. Certo, una crescita dei tassi di queste dimensioni non è da mettere necessariamente in conto, almeno in un lasso di tempo ristretto. L’esempio fornisce però una misura efficace dei rischi associabili al mercato obbligazionario: dopotutto da metà dicembre a inizio febbraio i rendimenti del Bund a 10 anni tedesco sono cresciuti di 40 punti base, non certo briciole quindi.
I BTp e quei 5 anni che rischiano di andare in fumo
Sui BTp e in generale sui titoli obbligazionari italiani il discorso non si scosta molto, nonostante nel nostro Paese i tassi siano più elevati che nel resto dell’Europa continentale. La durata media finanziaria dei bond del Tesoro presenti sul mercato e con scadenza superiore a un anno è infatti pari a 6,78 anni, mentre il rendimento è dell’1,31 per cento. Un eventuale aumento dei tassi di 100 punti base farebbe quindi evaporare quanto in genere si guadagna in circa cinque anni. Di tutto questo il risparmiatore che tipicamente acquista un BTp e lo tiene nel cassetto fino alla scadenza si accorge a stento, perché l’unica «perdita» in cui può incorrere è semmai una sorta di costo opportunità nel non detenere attività che nel frattempo sono diventate più redditizie.
La differenza fra «cassettista» e «fondista»
Diverso è il discorso quando ci si affida a un fondo che segue in modo passivo un indice obbligazionario, perché lì le insidie si moltiplicano e subire da un giorno all’altro una perdita in conto capitale più o meno dolorosa o recuperabile non è difficile. Se lo chiedete, però, ogni gestore avrà la sua particolare soluzione per affrontare problemi del genere senza necessariamente eliminare del tutto dal portafoglio la componente bond. Quella di TwentyFour Am, per esempio, si basa su analisi quantitative che riguardano i comportamenti dei mercati negli ultimi 25 anni: un lasso di tempo che abbraccia cicli economici e monetari molto differenti fra loro.
Un’ipotesi di gestione attiva: scadenze ridotte e spazio a «Bbb»
La conclusione è che nell’ottica di ottenere un rendimento assoluto, ossia offrire sempre una forma di guadagno al risparmiatore minimizzando al tempo stesso le oscillazioni di prezzo la gran parte del portafoglio, almeno i due terzi di esso dovrebbero essere investiti in titoli di durata breve o media, con scadenza residua non superiore ai 5 anni, e dal merito di credito dell’emittente Bbb. «Dal 2000 in poi un portafoglio con queste caratteristiche ha fornito un rendimento medio annuo del 5,1% con un grado di volatilità che non ha mai superato il 3%», osserva Bowie, sottolineando che statisticamente parlando «la perdita massima subita si è verificata durante la crisi del debito del 2011, è stata pari all’1,73%, ma è stata recuperata nell’arco di 118 giorni».
A confronto, i risultati ottenibili replicando uno dei tanti indici obbligazionari - l’iBoxx Gbp Corporate che investe sui bond aziendali britannici per esempio - dimostrano che nel lungo termine si possono anche ottenere rendimenti superiori (6,32% medio annualizzato dal 2000) ma a costo di una volatilità di quasi cinque volte più elevata. La perdita maggiore dell’indice ha infatti sfiorato il 19%, una discesa sensibile che ha richiesto ben 842 giorni di calendario per essere annullata. La scelta in questo caso riguarderebbe la propensione al rischio di ciascun risparmiatore, che però difficilmente è in grado di comprendere in pieno i pericoli che si possono celare dietro un indice di riferimento e quindi anche del fondo che prova a replicarne l’andamento. E se capita di scegliere il momento sbagliato per investire, risalire la china può allora diventare davvero complicato.
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