Metalli più cari negli Stati Uniti, prezzi sotto pressione nel resto del mondo. Sui mercati delle materie prime è stata questa la prima reazione ai dazi di Donald Trump su acciaio e alluminio. Ma la storia probabilmente non finisce qui. La decisione della Casa Bianca ha innescato dinamiche complesse, che ancora non sono del tutto prevedibili, ma che potrebbero provocare un impatto molto più esteso di quello che stiamo osservando.
Timori per la crescita
Le commodities in generale temono il protezionismo, non fosse altro che per i danni che può infliggere all’economia globale: meno crescita significa meno consumi e meno produzione, quindi probabili ribassi di prezzo per qualunque materiale, non solo i metalli. Una frenata del commercio mondiale comporta anche un impatto negativo diretto sul petrolio, perché si riducono i volumi e le rotte delle merci trasportate in giro per il pianeta.
Se i dazi americani scateneranno ritorsioni da parte di altri Paesi – come appare probabile che accadrà – le conseguenze per l’economia, che oggi sta crescendo ovunque in modo salutare, potrebbero essere gravi. È questo lo scenario che fa davvero paura e che i mercati probabilmente non stanno ancora scontando.
In fin dei conti persino le quotazioni dei metalli colpiti dai dazi Usa stanno tenendo abbastanza bene.
L’alluminio registra la peggiore performance al London Metal Exchange (Lme) quest’anno, con un ribasso del 6,5%, e ieri è sceso ai minimi da due mesi e mezzo, sotto 2.100 dollari per tonnellata. Dopo una fase di debolezza, estesa anche agli altri non ferrosi, si è però ripreso per chiudere la seduta in rialzo.
L’umore positivo dei mercati – che sono apparsi più impressionati dai dati su occupazione e salari Usa che dal pericolo protezionismo – ha risollevato tutto il listino, con un balzo di oltre il 4% per il nickel, che pure viene impiegato in gran parte nell’industria siderurgica e dunque è più esposto all’effetto dei dazi americani.
Rincari sui mercati Usa
Sul mercato americano la situazione è opposta. Con le importazioni di alluminio che saranno più costose, i premi sulle consegne fisiche di metallo (che si sommano alle quotazioni di borsa) sono balzati ai massimi da tre anni: nel Midwest Platts li registrava a 19 cents/libbra giovedì, in rialzo del 29% rispetto alla settimana scorsa.
Negli Usa anche l’acciaio si sta apprezzando: i laminati a caldo valgono 844,50 $/tonnellata. Viceversa in Cina la settimana è stata una brutta settimana per le materie prime siderurgiche, addirittura la peggiore da un anno, con un ribasso del 7,8% per i future sulla vergella a Shanghai. Ma nei 12 mesi precedenti gli stessi contratti avevano accumulato un rialzo di circa il 40%. E comunque gli analisti attirano l’attenzione anche su altri fattori ribassisti: le scote cinesi sono da primato e la ripresa di attività delle acciaierie dopo i tagli anti-smog invernali potrebbe aggravare la situazione.
I dazi di Trump sono un’ulteriore preoccupazione. Ma in fondo la Cina – pur essendo la prima responsabile del surplus globale di acciaio – negli Usa esporta pochissimo: appena l’1,4% su un totale di 74,82 milioni di tonnellate vendute all’estero nel 2017, secondo Wood Mackenzie. Si preannunciano problemi più seri per il Brasile e anche per Canada e Messico, se non verrà confermata l’esenzione (che per ora è stata concessa per soli 30 giorni ed è vincolata all’esito dei negoziati sul Nafta).
I rischi per l’Europa
Su 35,6 milioni di tonnellate di acciaio importate dagli Usa l’anno scorso (circa un terzo del suo fabbisogno), l’Unione europea ha fornito circa 5 milioni di tonnellate e di queste il 10% ossia 500mila tonnellatearrivava dall’Italia, stima Federacciai.
Il calo dei volumi di esportazione potrebbe essere aggravato dal fatto che l’Europa rischia di diventare meta di grandi quantità di acciaio (cinese o meno) non più vendibili agli Usa, un timore condiviso nel settore dell’alluminio: European Aluminium teme che il dumping possa provocare un ribasso fino al 35% dei prezzi di vendita dei prodotti semilavorati nella Ue.
I dazi Usa, calcola WoodMackenzie, rischiano di spiazzare 18 milioni di tonnellate di acciaio, che dovranno uscire di produzione o trovare mercati alternativi, provocando forti pressioni sui prezzi. Negli Usa viceversa l’acciaio potrebbe rincarare «di almeno il 25%», prevede la società di consulenza, con un pericoloso aggravio dei costi per le industrie che lo consumano: dall’automotive all’Oil & Gas.
Petrolieri in allarme
L’industria petrolifera Usa è in allarme, perché molte delle qualità di acciaio che utilizza non sono reperibili sul mercato domestico: Trump, denunciano le associazioni di categoria del settore, «minaccia l’aspirazione americana al dominio energetico», perché molti progetti per la produzione e l’export di petrolio e gas rischiano di essere «cancellati o rinviati» a causa dei costi eccessivi e della difficoltà a procurarsi materiali.
Washington potrebbe essere penalizzata, in campo energetico e non solo, anche da eventuali rappresaglie: qualche Paese potrebbe essere tentato di applicare dazi sul petrolio o sul gas «made in Usa», frenando la sua recente, formidabile espansione sui mercati internazionali.
Le industrie metallurgiche cinesi, attraverso le loro associazioni, hanno esplicitamente suggerito a Pechino di studiare ritorsioni sull’import di carbone americano, oltre che su acciaio inox, elettronica e prodotti agricoli. In quest’ultima categoria sarebbero particolarmente dolorosi per gli Usa eventuali dazi sulla soia, tuttora una delle maggiori voci di export per il Paese.
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