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Spotify, la quotazione diretta spaventa le banche d’affari

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Spotify, la quotazione diretta spaventa le banche d’affari

Spotify, il giorno dopo: la quotazione del leader dello streaming musicale ha lasciato il segno - a Wall Street come tra i protagonisti di Internet.

La robusta valutazione con cui ha terminato la prima seduta di scambi del titolo e iniziato ieri la seconda è stata significativa su entrambi questi fronti: 26,54 miliardi di dollari. È un valore che ha messo il leader dello streaming musicale nell’orbita di un’altra società «disruptive», capace di rivoluzionare un settore: Netflix, sorella nello streaming - di film e spettacoli. Al netto del debito, Spotify è stata scambiata ad un multiplo di circa 24 volte i profitti lordi, contro le 31 di Netflix. Segno che gli investitori vedono nel gruppo un continuo potenziale di crescita.

La market cap conquistata da Spotify ha scosso anche l’alta finanza, che ha visto il proprio business sfidato da una quotazione condotta con successo attraverso il metodo del “direct listing”, una quotazione diretta che ha tagliato fuori banche sottoscrittrici. Pur ripiegando nel corso delle ore, il valore di Borsa del gruppo è stato nettamente superiore ai 20 miliardi delle valutazioni pre-Ipo. E, dopo aver aperto quale terzo collocamento tech di sempre, è comunque risultato l’ottavo alla chiusura della seduta di debutto, alle spalle di un celebre marchio quale Google. Ancora: i titoli scambiati sotto il simbolo Spot sono stati pari a 940 milioni di dollari, quarti in classifica dal 2010. E la fascia di oscillazione è stata del 13,99%, superiore ma non troppo ad altri sbarchi tecnologici e simile al «range» della volatilità di Twitter, il 13,84 per cento.

Una solida performance di Spotify, se confermata nelle prossime sedute, potrebbe adesso convincere altre grandi società Internet che studiano una quotazione in Borsa a seguire le sue orme: da Airbnb a Pinterest e Uber, con la sua valutazione da quasi 70 miliardi. L’attrazione del «direct listing» è nella possibilità di ridurre il bottino delle banche, che in ruoli di consulenza hanno questa volta intascato 36 milioni, assai meno dei quasi cento milioni intascati in una tradizionale Ipo quale Snap l’anno scorso. Le incognite però non mancano: sono contenute anzitutto nei volumi incerti della compravendita di titoli dopo la quotazione diretta. Le azioni totali sono 178 milioni, con teoricamente il 91% di queste disponibili tra cui il 39% in mano ai due co-fondatori. Solo 30 milioni di titoli sono stati scambiati nella seduta iniziale lasciando aperta la possibilità di nuove svolte. Mentre gli analisti variano nelle loro raccomandazioni iniziali da «buy», nuovi acquisti, a «hold», mantenimento.

Lo sbarco in Borsa potrebbe anche trasformarsi in un’iniezione di fiducia per il modello di business. Quella sfida, però, rimarrà a sua volta probabilmente a lungo davanti a Spotify, men che risolta. L’azienda, tuttora in perdita, ha bisogno di trasformare un crescente numero dei suoi utenti “free” - 90 milioni su 160 - in abbonati. Soprattutto, deve fare i conti con le grandi case discografiche - Universal Music, Sony Music e Warner Music - che oggi controllano due terzi della musica prodotta. E con la concorrenza di servizi di streaming rivali, quali Apple, Amazon, Google e Pandora.

Spotify, a questo proposito, ha promesso di ripensare la strategia per il futuro: nel prospetto per gli investitori ha ipotizzato di ritagliarsi un nuovo ruolo «diretto» nel collegare utenti e artisti, capace cioè, come a Wall Street, di saltare intermediari nel contenuto alla stregua di Netflix nei video. Oggi Spotify paga ingenti diritti - due terzi delle sue entrate da cinque miliardi - alle case discografiche oltre che a musicisti e produttori, pur cercando di contenere i costi rinegoziando la “musica” degli accordi.

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