Non sono ancora veri e propri dazi, ma poco ci manca. La Cina torna a prendere di mira l’agricoltura americana, con una misura che colpisce le importazioni di sorgo. Il cereale – impiegato soprattutto nei mangimi animali, oltre che per la distillazione di un liquore chiamato baijiu – è un prodotto meno importante della soia per gli Stati Uniti. L’export vale comunque circa un miliardo di dollari l’anno e i provvedimenti adottati da Pechino, definiti una «misura temporanea anti-dumping», riportano in primo piano i timori di guerra commerciale, che i mercati agricoli sembravano aver accantonato.
Da oggi il Governo cinese imporrà a chiunque voglia importare sorgo dagli Usa di depositare una somma pari al 178,6% del valore della merce, una richiesta davvero onerosa, che potrebbe scoraggiare del tutto gli acquisti. Anche perché tra poco i dazi potrebbero arrivare davvero.
La misura di ieri, spiega il ministero del Commercio, sarà sostituita da tariffe se l’esito finale della sua inchiesta sul sorgo americano confermerà che ci sono state azioni lesive della concorrenza. Pechino accusa Washington di aver foraggiato con sussidi i coltivatori di sorgo, favorendo esportazioni sotto costo.
L’indagine, avviata all’inizio febbraio, era sembrata a molti analisti una risposta politica ai dazi adottati poco prima da Donald Trump su pannelli solari e lavatrici. Il sorgo – coltivato soprattutto in Kansas e in Texas, due roccaforti dell’elettorato repubblicano – compare anche, insieme alla soia, nella lista di 106 prodotti che la Cina lo scorso 4 aprile ha identificato per un’eventuale ritorsione contro le ultime tariffe minacciate dalla Casa Bianca.
La produzione di sorgo, che negli Usa era inferiore a 500mila tonnellate l’anno fino al 2013, è letteralmente esplosa nel giro di un paio d’anni, spingendosi fino a un record di 9,1 milioni tonnellate nel 2015, quasi tutte destinate ai mercati d’esportazione e in particolare a soddisfare la domanda cinese di cereali per mangimi, che con l’aumento dei consumi di carni sta crescendo a ritmi sostenuti.
Pechino e Washington hanno sviluppato una dipendenza reciproca in questa particolare nicchia di mercato: l’anno scorso 4,8 milioni di tonnellate di sorgo «made in Usa» sono finite in Cina, per un valore di 1,1 miliardi di dollari, forniture che rappresentano il 90% dell’export americano, ma anche il 90% dell’import cinese del cereale.
Le misure adottate ieri hanno risvegliato i timori di guerre commerciali, ma la reazione sui mercati Usa è stata piuttosto tiepida. Al Cbot i semi di soia – che erano crollati sotto 10 dollari per bushel all’inizio del mese per la minaccia di dazi, salvo poi recuperare – hanno anzi chiuso in lieve rialzo, vicino a 10,50 $.
In Cina i future su mais e farina di soia hanno registrato rialzi intorno al 2%. Sostituire il sorgo americano non dovrebbe comunque costituire un problema insormontabile. Pechino – forse proprio in preparazione della mossa di ieri – quest’anno ha anticipato l’avvio delle vendite di mais dai magazzini di Stato, dove ha accumulato scorte immense prima di modificare nel 2016 le politiche di sostegno agli agricoltori. Secondo la Reuters il Governo dispone ancora di 179 milioni di tonnellate di riserve, pari a quasi un anno di consumi del gigante asiatico.
Il primo lotto di questa stagione, messo in vendita la settimana scorsa, era di quasi 7 milioni di tonnellate, quasi tutte del raccolto 2014, forniture inadatte all’alimentazione umana ma ancora valide per i mangimi.
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