New York - Se il suo modello di business è in discussione e le polemiche l’assediano, ben vengano discussioni e polemiche. Potrebbe essere questo il messaggio, tradotto in parole, delle cifre dell’ultimo bilancio trimestrale di Facebook: il re dei social network è volato oltre ogni attesa, dimostrando con la marcia di utili e fatturato che tra il dire - accuse di violazione della privacy e fake news - e il fare - abbandonare Facebook da parte di eserciti di inserzionisti e amici virtuali assuefatti alla sua influenza globale - c’è di mezzo il proverbiale mare. Una distanza che riafferma il successo e la leadership dell'azienda nell’economia digitale, ma che può attenuare la pressione ad attuare profonde riforme contro rischi e abusi.
Come altro interpretare il boom di utili e fatturato? Ricapitoliamoli: nei primi tre mesi dell’anno utili per azione da 1,69 dollari, contro gli 1,35 prestiti e gli 1,04 di un anno fa, buoni per un totale che ha sfiorato i cinque miliardi, in rialzo del 63 per cento. Il giro d’affari ha registrato a sua volta un incremento vicino al 50% e ai 12 miliardi, rispetto agli 11,41 miliardi previsti. E gli utenti? Il loro numero mensile è aumentato senza soste, ne sono arrivati altri 70 milioni gonfiando i ranghi a 2,2 miliardi, senza remore davanti al patto faustiano che baratta relazioni virtuali per l’assai più cruda realtà della compravendita di dati personali a scopi pubblicitari o, peggio ancora, lo spettro di pericolose manipolazioni politiche e sociali.
Questa cruda e oscura realtà è oggi la prima della sfide irrisolte alle spalle delle cifre. Un’inchiesta del New York Times nei giorni scorsi ha accesso i riflettori su un fatto particolarmente scomodo e sul peso delle responsabilità in gioco per gli scarsi filtri e l’assente supervisione: la diffusione incontrollata di fake news, di cui Facebook è diventato uno dei motori per quanto involontario, ha effetti deleteri nelle democrazie occidentali; ma in regioni povere e travagliate del mondo può rivelarsi ben più tragica, può letteralmente uccidere.
È il caso di recenti notizie false in Sri Lanka che riportavano di un assassino ad opera di musulmani - la polizia aveva invece concluso che si era trattato di un alterco in strada divenuto violento - parte di complotti per eliminare la maggioranza buddista. Gruppi estremisti che diffusero la “notizia” via Facebook e organizzarono la risposta: una folla buddista linciò un cittadino di fede islamica, anzi lo bruciò vivo. Il Times rimarca che tuttora in Sri Lanka nessuno si è accorto di cambiamenti nella possibilità di usare la piattaforma di Facebook per orchestrare violenti odi etnici e religiosi.
Tutto ciò non entra negli idilliaci bilanci consegnati agli investitori. Quei numeri in costante crescita, tuttavia, sollevano essi stessi un altro interrogativo. Evidenziano un dominio ormai conquistato dai nuovi potenti tech e mediatici, tanto che non paiono neppure temere rimedi antitrust o strette di regolamentazione. È sempre di questi giorni la conclusione del Wall Street Journal che sostiene come le nuove norme sulla privacy in arrivo a maggio nell'Unione Europea - sulle quali molti contano quale riferimento globale per contenere strapotere e rischi di abusi anzitutto nella gestione e compravendita di dati personali - potrebbero avere l’effetto opposto a quello desiderato.
Consolidare cioè la posizione di assoluto primo piano dei colossi, gli unici ad avere risorse finanziare e tecnologiche per adempiere alla lettera delle riforme senza risentirne, condannando invece all’emarginazione nuovi arrivati e futura innovazione, vale a dire la ricetta che nel lungo periodo potrebbe migliorare il clima concorrenziale e, forse, anche le garanzie ai consumatori. Una simile conclusione lascia anzitutto nelle mani di Facebook - e dei suoi compagni di strada - la missione di controllo e la definizione di limiti.
Esaminando più in dettaglio i conti del primo trimestre, il pilastro dell'immenso business è rimasto saldamente la raccolta pubblicitaria, ora come sempre legata a doppio filo alla capacità di sfruttare dati e utenti. Salita del 50%, la pubblicità ha raggiunto gli 11,8 miliardi. Per il 91% arriva dai gadget mobili, la componente più pervasiva e in maggior crescita, rispetto all’85% di un anno prima.
Nessuna traccia, almeno per il momento, di frenate derivate dall'impatto dello scandalo di Cambridge Analytica, esploso apertamente a metà marzo, che ha mostrato gli inadeguati controlli sulle informazioni personali in quel caso utilizzate irregolarmente dalla società di consulenza politica in aiuto alla campagna di Donald Trump per la presidenza americana del 2016. Né c’è traccia neppure dell'altro scandalo, precedente e tuttora irrisolto: le profonde infiltrazioni russe nei social media - a cominciare da Facebook - volte a distribuire informazioni fasulle, incitando divisioni e discredito delle istituzioni e favorendo Trump durante e dopo le elezioni. Forse per questo, per la capacità di Facebook di inanellare brillanti risultati anche durante il primo trimestre afflitto da tutte le polemiche e da inedite di richieste di giri di vite su tech e social media, gli investitori nel dopo mercato di ieri sera hanno premiato il titolo con un rialzo superiore al 6% che ha recuperato parzialmente il declino del 18% subito da inizio anno.
Altri osservatori, però, aspettano al varco qualcosa di più e auspicano che questo qualcosa non venga seppellito dalle performance finanziarie: le riforme di responsabilità promesse dal fondatore e chief executive di Facebook, Mark Zuckerberg, al Congresso e all'opinione pubblica. Sacrificarle sarebbe una tragedia tutt’altro che virtuale.
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