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Perché i bond Usa al 3% stanno mandando in tilt i Paesi emergenti

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tra rialzo dei tassi e guerra delle valute

Perché i bond Usa al 3% stanno mandando in tilt i Paesi emergenti

(Adobe Stock)
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Sui mercati è tornato in auge il dollaro. Solo nelle ultime 24 ore il biglietto verde si è rivalutato su scala globale dello 0,3% (dollar index). Ma è una tendenza che ormai prosegue senza posa da metà aprile, da quando i rendimenti dei titoli obbligazionari statunitensi a 10 anni hanno infranto al rialzo (non accadeva dal 2014) la barriera del 3%. Cosicché, riepilogando, nelle ultime tre settimane il dollaro ha guadagnato il 3,6% sulle principali valute mondiali. Non fa eccezione l’euro, che da allora ha perso quasi quattro punti percentuali sulla divisa Usa, scivolando da quota 1,24 a 1,19 (ieri nelle contrattazioni intraday è sceso per la prima volta nel 2018 sotto questa soglia).

Il super dollaro non sta mostrando i muscoli solo nei confronti delle valute delle economie sviluppate ma anche, e ancor di più, nei confronti dei Paesi emergenti. Basti pensare che nell’ultimo mese il peso argentino ha perso quasi l’8% (e da inizio anno il 16%), il rublo russo oltre il 7% e il peso messicano il 6%. Forti svalutazioni anche per real brasiliano e lira turca (-5%) e rand sudafricano (-4%). Da non sottovalutare anche i movimenti nei confronti dello yuan cinese che ieri in una sola giornata ha ceduto lo 0,7% sul dollaro.

Ma cosa sta succedendo? «Il rialzo dei rendimenti negli Usa sta spingendo molti gestori ad abbandonare le posizioni sui Paesi emergenti, accumulate negli ultimi anni proprio per andare a caccia di extra-rendimenti - spiega Vincenzo Longo, strategist di Ig -. Ma se ora gli extra-rendimenti li paga un Paese solido come gli Usa meglio puntare direttamente sui Treasury».

LO SCATTO DEL DOLLARO
L'andamento del dollar index

A questo fattore - il più importante - poi se ne aggiungono altri, che riguardano le storie dei singoli Paesi. Nell’incredibile svalutazione del peso argentino non si possono poi ignorare i fattori endogeni dell’economia di Buenos Aires, tornata nella spirale tra tassi alti (la scorsa settimana la banca centrale li ha portati al 40%!) e insostenibilità del debito.

«E poi c’è l’impatto del rimpatrio dei capitali in conseguenza della riforma fiscale voluta da Trump - conclude Longo -. Capitali che tornano negli States e diventano dollari».

Nel circolo vizioso tra tassi Usa in rialzo e guerra fredda delle valute non va escluso lo shock esogeno legato al prezzo del petrolio che ieri ha superato i 75 dollari al barile, anche a causa della crisi venezuelana, potenza petrolifera ormai al collasso, dove l’inflazione ha raggiunto il 14.000%. Il petrolio in rialzo sta facendo crescere le aspettative di inflazione a breve, spingendo in forte rialzo anche i tassi della parte breve della curva Usa (con i titoli biennali al 2,5%). Livelli che incentivano ulteriormente gli investitori a comprare dollari per mettere in portafoglio titoli che offrono rendimenti superiori di 310 punti rispetto ai pari scadenza tedeschi.

Nella lista dei recenti ossimori finanziari si inserisce anche il fatto che dollaro e petrolio da qualche seduta stanno salendo insieme, quando in condizioni normali (non viziate da shock esterni) sono legati da una relazione inversa.Ciò vuol dire - abbozzano alcuni esperti di materie prime - che se il dollaro volasse più basso probabilmente il petrolio avrebbe già avvicinato la soglia dei 100 dollari.

twitter.com/vitolops

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