Le sanzioni contro l’Iran sono un film già visto, ma i protagonisti sono cambiati rispetto al 2012 e i mercati petroliferi potrebbero non ricalcare lo stesso copione. Con l’istrionico Donald Trump nel ruolo principale l’incertezza regna sovrana e per le quotazioni del barile questo significa soprattutto volatilità. Lo si è visto fin dalla giornata di ieri, segnata dall’attesa (e dalle indiscrezioni, talvolta contrastanti) per l’annuncio della Casa Bianca: le quotazioni hanno oscillato con violenza, arrivando a perdere oltre il 4%, per poi tornare a visitare i livelli record di lunedì – oltre 76 dollari per il Brent – e riafflosciarsi di nuovo sul finale.
Mentre oggi il petrolio al Nymex accelera ulteriormente al rialzo dopo il dato sulle scorte settimanali Usa di greggio, inaspettatamente calate. Il contratto a giugno avanza del 3% a 71,23 dollari al barile; prima del dato viaggiava a 70,88 dollari al barile.
Il riferimento europeo ha chiuso la seduta sotto 75 dollari, in ribasso di circa il 2%, una volta ufficializzata la notizia – già data per scontata da molti investitori – del ritiro di Washington dagli accordi sul nucleare.
Come evolverà la situazione è difficile dirlo. Lo stile Trump ha già gettato nel caos i mercati di altre materie prime, in particolare quello dell’alluminio, tuttora instabile per le durissime sanzioni contro la russa Rusal e la successiva allusione a possibili correzioni di rotta. Anche i dazi, sull’alluminio e sull’acciaio, creano incertezze: gli Usa hanno infatti concesso solo esenzioni temporanee agli alleati. Un approccio altrettanto umorale e volubile nel caso Iran non gioverebbe alla stabilità dei mercati petroliferi e potrebbe essere deleterio per gli investimenti del settore, che tuttora faticano a risollevarsi dopo gli anni della crisi.
È comunque difficile stimare quale sarà l’impatto della mossa annunciata ieri da Trump. Per quanto riguarda le forniture di greggio iraniano, molto dipenderà dalla reazione dell’Europa. Nel 2012, quando la Ue scelse di affiancare gli Usa nelle sanzioni, l’export di Teheran si ridusse (sia pure gradualmente) di un milione di barili al giorno, riuscendo a risollevarsi solo da gennaio 2016, con l’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare. Oggi è più che raddoppiato, a 2,2-2,3 mbg, e addirittura si è spinto a un record di 2,7 mbg il mese scorso, quando si presume che Teheran abbia anticipato di proposito la consegna di alcuni carichi.
La Ue non intende seguire Trump, ma le società europee potrebbero comunque trovarsi costrette a contenere, se non a evitare del tutto, gli acquisti dall’Iran. Le importazioni – intorno a 500mila bg, di cui 170-180mila diretti in Italia – rischiano quindi di ridursi. L’impatto sul mercato dipenderà dalla disponibilità di altri clienti ad assorbire le forniture eventualmente rifiutate dagli europei e da altri alleati degli Usa, come Giappone e Corea del Sud.
Danni più seri si profilano nel lungo periodo, se dovessero risultare scoraggiati gli investimenti stranieri in Iran, come quello di Total, che ha firmato un contratto per sviluppare il giacimento di South Pars. La produzione di Teheran, che in due anni è salita da 2,9 a 3,8 mbg, non solo smetterebbe di crescere ma rischierebbe il declino.
Gli Usa stessi non investono direttamente nella Repubblica islamica e non acquistano neppure una goccia di petrolio iraniano, per cui hanno poco da perdere. Washington peraltro è avviata a ridurre la dipendenza energetica dall’estero ai minimi da 60 anni: le nuove previsioni del governo, diffuse ieri, indicano che le importazioni nette (compresi i prodotti raffinati) scenderanno ad appena 1,5 mbg nel 2019. Le estrazioni di greggio nello stesso anno raggiungeranno 12 mbg, più della Russia.
Sarà cruciale anche osservare la reazione dell’Opec, che potrebbe compensare gli eventuali barili iraniani mancanti riducendo i tagli produttivi che sta effettuando dal 2016 con Mosca e altri alleati. L’Arabia Saudita – l’unico Paese al mondo in grado di accelerare le estrazioni in fretta e in modo consistente – potrebbe anche agire in autonomia, ma non è detto che voglia intervenire: negli ultimi mesi non ha fatto nulla per contrastare il crollo della produzione in Venezuela – dove si sono persi 600mila bg in un anno – e in Angola.
Di certo l’offerta di greggio sul mercato oggi non è più eccessiva. E l’inasprimento delle relazioni Usa-Iran di per sè è un fattore rialzista per i prezzi, perché accentua i rischi – anche di conflitti armati – in Medio Oriente, in un periodo di tensioni crescenti. Ieri l’Arabia Saudita ha colpito il palazzo presidenziale di Sana’a, la capitale dello Yemen, in risposta ai continui lanci di missili dei ribelli Houthi, filo-iraniani. Teheran ha intanto conquistato un appoggio importante in Libano, con la vittoria alle elezioni di Hezbollah. E sabato si andrà al voto in Iraq.
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