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Perché la Cina potrebbe acquistare bond italiani. Oppure no

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da lunedì missione italiana a Pechino e Shanghai

Perché la Cina potrebbe acquistare bond italiani. Oppure no

Un maggior contributo cinese alla stabilizzazione del mercato dei bond italiani? È più che auspicabile, visto che a fine anno la Bce smetterà di comprare titoli di Stato - nel suo percorso di fuoriuscita dalla strategia di allentamento quantitativo – e dei recenti segnali di riluttanza a comprare da parte degli investitori. L'ipotesi appare nell'ordine delle possibilità, specie se inquadrata in uno scenario di intensificazione dei rapporti economici bilaterali che la missione di settimana prossima guidata dal ministro dell'Economia Giovanni Tria (accompagnato dal vicedirettore generale della Banca d'Italia, Fabio Panetta) a Pechino e Shanghai prospetterà (27 agosto-2 settembre).

Obiettivo dichiarato della missione è quello di rafforzare ulteriormente i rapporti economici tra i due Paesi, che possono trarre reciproco vantaggio da una intensificazione delle relazionie conomiche, finanziarie e commerciali. L’Italia e la Cina - ha sottolineato il Ministero dell’Economia e delle Finanze «condividono la volontà di mantenere un clima di collaborazione nello sviluppo ordinato dell’economia mondiale e hanno interesse a cooperare per la difesa della stabilità dei mercati finanziari e a sopporto della crescita sostenibile e dell’occupazione ». Molto si è vociferato, negli ultimi giorni, su cosa dirà Tria al ministro delle Finanze cinese Liu Kun e al governatore della banca centrale Yi Gang. Inevitabilmente, è diventato oggetto di discussioni più o meno accademiche la possibilità che la Cina possa «dare una mano» al nostro mercato dei bond sui cui il barometro segna l’avvicinarsi di orizzonti tempestosi.

Senonché c'è un precedente che evidenzia come sia ben difficile aspettarsi che le autorità cinesi possano intervenire come fattore decisivo nel caso che le tensioni sui mercati esplodessero e le polemiche tra Italia e autorità europee dovessero diventare roventi. Un precedente che indica le direttrici costanti della diplomazia economica cinese, che prevedono –tanto più al di fuori del perimetro asiatico - una gestione oculata e “tecnica” degli investimenti finanziari esteri, senza dare un grande peso a considerazioni politiche: una strategia che guarda agli interessi permanenti a lungo termine del Paese, che contemplano una espansione di influenza che sia progressiva, senza fughe in avanti che potrebbero esporre il fianco a forti e dannose polemiche.

Il caso Cina-Grecia
Fin dagli inizi della crisi finanziaria della Grecia circa un decennio fa, periodicamente sono circolate voci di potenziali interventi di Cina, Russia o altri Paesi a supporto di Atene. Nulla emerse di particolarmente rilevante, salvo un episodio del 2015 rivelato con dovizia di particolari dall'ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. Di tutto si può dire del controverso economista-politico, ma non che non sia un buon scrittore. Le sue memorie “Adults in the room: my battle with Europe's deep establishment” abbondano di acute osservazioni e di indiscrezioni,. A tratti si leggono come un giallo. Il contesto è quello della sua disperata ricerca di tempo per cercare di convincere le controparti europee su un punto su cui lo stesso Fondo Monetario Internazionale, per altre vie, sostanzialmente condivideva e condivide: la necessità di un taglio allo stock dell'insostenibile debito greco, alternativo all'approccio “extend and pretend” con concessione alla Grecia di ampi prestiti in cambio di dure misure di austerità.

Varoufakis infastidiva Bruxelles, Francoforte e Berlino gridando “il re è nudo”, ossia sostenendo che lo Stato greco era sostanziamente fallito e non poteva rimettersi in piedi, né mai ripagare i creditori, con la ricetta liberista dell'austerity. Più in generale, si era agli inizi del governo uscito dalle elezioni di fine gennaio 2015 che avevano messo al potere la sinistra radicale di Syriza, reduce da una campagna anti-memorandum e anti-austerità. L'accoglienza al governo Tsipras fu non solo gelida, ma palesemente ostile: pochi giorno dopo l'insediamento, la Bce staccò la bombola dell'ossigeno finanziario alle banche greche e quindi al governo, con una decisione annunciata nella tarda serata del 4 febbraio – poco dopo un incontro tra Varoufakis e Draghi – con cui eliminava la deroga che consentiva alle banche greche operazioni ordinarie di finanziamento agevolato (una deroga che aveva permesso loro di piazzare alla Bce come collaterali le obbligazioni greche, anche se non erano “investment grade”). Uno “squeeze” in piena regola sulla liquidità, accompagnato dalla proibizione alle banche greche di aumentare il portafoglio di bond governativi a breve termine, che provocò subito il crollo in borsa degli istituti e intensificò la fuga di capitali. La motivazione addotta dalla Bce era più di sapore politico che tecnico: la sospensione veniva decisa “in quanto al momento non è possibile assumere una conclusione positiva delle review sul programma in corso (tra la Grecia e i suoi creditori)”.

La mossa disperata di Varoufakis
Già dal 5 marzo iniziavano una serie di scadenze che, in un solo mese, comportavano per il governo greco il rimborso, in successive ravvicinate tranche, di circa 1,5 miliardi di euro al Fondo Monetario Internazionale. Varoufakis decise di cercare di giocare la carta cinese per guadagnare tempo nelle trattative mostrando alle controparti che aveva la possibilità di uscire dall'angolo. Il problema era che la sinistra radicale era giunta al potere dopo una campagna contro le privatizzazioni, che anzi chiedeva di buttar fuori i cinesi dal porto del Pireo, dove erano arrivati a gestire due moli in una parziale operazione di cessione nel 2009. Non un buon biglietto da visita per la cena con l'ambasciatore cinese del 25 febbraio 2015. Si può ben immagine la sorpresa del diplomatico, che si aspettava al massimo di ottenere una proroga nell'ordine di evacuazione per la Cosco, ammonendo sulle gravi conseguenze sulla credibilità della Grecia da una forzato sfratto di investitori stranieri diretti che si erano fidati dei contratti firmati: si vide arrivare a casa il ministro accompagnato dalla moglie Danae che indossava uno splendido vestito cinese, comprato tempo prima a Shanghai, e ricevette la proposta di fare della Cina il partner economico privilegiato di Atene nelle privatizzazioni e anche oltre. Varoufakis suggerì non solo che Cosco si prendesse la gestione dell'intero porto (su cui erano già in corso trattative), ma offrì anche le ferrovie elleniche, più la costituzione di un parco industriale a regime fiscale agevolato vicino al Pireo per investimenti diretti e joint venture industriali. Dulcis in fundo, per rendersi davvero credibile, quasi pregò l'ambasciatore di recarsi insieme a visitare il Pireo nei giorni seguenti. “Posso portare una troupe televisiva cinese?”, balbettò l'esterrefatto diplomatico. “Insisto io perché lo faccia”, fu la risposta. La visita congiunta avvenne due giorni dopo, mentre il 2 marzo al ministero delle Finanze ci fu una riunione in cui fu sancito informalmente l'accordo. In cambio, Varoufakis aveva chiesto che la Cina comprasse immediatamente 1,5 miliardi di T-bills greci e si preparasse a investire nei mesi seguenti altri 10 miliardi in obbligazioni. Due giorni dopo, Varoufakis apprese con soddisfazione – racconta lui – che indirettamente e segretamente i cinesi avevano iniziato a acquistare T-bills per 100 milioni. Attese così con fiduciosa trepidazione l'esito dell'asta del 31 marzo, giorno in cui Pechino aveva promesso – scrive - di comprare il restante 1,4 miliardi (nel frattempo c'era stata una visita a Pechino del vicepremier e del ministro degli esteri greco, mentre si stava organizzando una visita di Stato di Alexis Tsipras). Arrivò invece la doccia fredda: i cinesi avevano comprato, ma solo per altri 100 milioni. Sconvolto, Varoufakis contattò l'ambasciatore, che sembrò egli stesso scosso ma gli promise che in due giorni si sarebbe rimediato a quanto era probabilmente riferibile a intoppi tecnici. All'asta di due giorni dopo, accadde lo stesso. I cinesi intervennero, ma solo per altri 100 milioni. Era la fine del sogno di Varoufakis, che si precipitò da Tsipras chiedendogli di chiamare il premier cinese. Il giorno dopo, l'arcano si svelava. Sarebbe arrivata a Pechino una telefonata da Berlino, con il caldo consiglio di non concludere accordi con i Greci prima che la Ue avesse concluso il proprio.

Morale della storia
Il racconto appare sostanzialmente credibile perché credibili ne sono gli elementi: la disperata ricerca di Varoufakis di guadagnare tempo e mezzi per contrastare l'arrivo di un nuovo memorandum (anche a costo di esporsi a pesanti critiche da parte dei colleghi più radicali anti-privatizzazioni); la sorpresa e l'interesse cinese (specie a livello locale) per le sue generose offerte; il tirarsi indietro finale di Pechino, con una coda di messaggio subliminale (tipo: avremmo voluto, ma non abbiamo potuto farlo per via di certe circostanze emerse). Sui dettagli, si potrebbe pensare a esagerazioni o estremizzazioni, ma in fondo non è così importante. Non è necessario credere che sia stato il ministro delle Finanze Schauble o chi per esso a telefonare da Berlino a Pechino: avrebbe potuto essere, per dire, l'ambasciatore cinese in Germania, ben posizionato per sollevare la questione se valesse la pena, per supportare la debole Grecia, rischiare di finire al centro di esasperate polemiche internazionali, con annesse accuse di interferenze indebite e ombre cinesi sul continente.

Dalla vicenda si può quindi agevolmente dedurre che la Cina può eventualmente «dare una mano» se ciò corrisponde ai suoi interessi, che vanno stuzzicati. Ma se il clima sui mercati si facesse molto tempestoso e si deteriorassero in un vortice di polemiche i rapporti tra Italia da un lato e Bruxelles, Francoforte e Berlino dall'altro, la Cina – anche se dovessimo offrirle la luna – non avrebbe interesse a deviare dalle costanti linee della sua diplomazia economica per gettarsi a gamba tesa nella mischia europea. Una mischia che sarebbe più politica che finanziaria.

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