I titoli tecnologici, nonostante il calo della scorsa settimana, dominano Wall Street. Amazon, dopo Apple, ha tagliato anch’essa il traguardo dei mille miliardi di dollari in capitalizzazione. Non solo. Il Nasdaq, indice simbolo dell’hi-tech “made in Usa”, ha raggiunto a fine agosto il massimo storico intraday di 8.132 punti. Ancora. Secondo BofAML la strategia operativa su “Faang e Bat” (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google più le cinesi Baidu, Alibaba e Tencent) è la più gettonata tra gli investitori globali. Insomma: la tecnologia vive, dal punto di vista borsistico, un momento magico.
La concentrazione hi-tech
Sennonché c’è chi invita a tenere i piedi per terra. I motivi per essere prudenti non mancano. Uno tra questi è il rischio connesso al sempre maggiore peso che i grandi dell’hi-tech hanno sull’S&P 500. Per rendersene conto basta guardare l’andamento storico dell’incidenza targata Facebook, Amazon, Alphabet (Google), Microsoft ed Apple. Ebbene: all’inizio del 2013 le “big five” valevano il 4,41% della capitalizzazione del più importante indice di Wall Street. Un anno dopo il peso era arrivato al 5,99% per, poi, raggiungere il 7,71% in avvio del 2017.
Di lì il salto: attualmente i titoli in oggetto pesano oltre il 14,6% (i primi 10 arrivano al 18,48%). Il valore è importante e, inevitabilmente, scatta il campanello d’allarme. È intuitivo infatti che, nel momento in cui il mercato è concentrato su pochi titoli, il pericolo che gli eventuali problemi di uno solo di essi possano trasformarsi in un ribaltone dell’intero indice è elevato. Tanto che l’appetito sui “Faang e Bat” non da pochi è considerato un’opportunità in ottica “contrarian”. Cioè: se la maggiore parte dei flussi è in acquisto su quei titoli può essere il momento di modificare l’impostazione.
La caduta di Facebook
Ciò detto, però, altri esperti non condividono la considerazione “contrarian” né, più in generale, le perplessità sulle azioni hi-tech. In tal senso viene ricordato cos’è accaduto a Facebook. La società guidata da Mark Zuckerberg, il 26 luglio scorso, è crollata in Borsa, bruciando 120 miliardi di capitalizzazione. Un tonfo che, a fronte della concentrazione descritta, avrebbe dovuto scuotere Wall Street. Il che, invece, non è stato. Certo: sia l’S&P 500 che il Nasdaq hanno chiuso in rosso. Ma le perdite sono state contenute: rispettivamente dello 0,3% e 1,01%. Il contagio temuto, insomma, non si è concretizzato. Perchè? «Il mercato - risponde Raimondo Marcialis ceo di Mc Advisory - ha considerato la vicenda legata esclusivamente a Facebook». «Un passo falso vissuto come una specificità della singola azienda - fa da eco David Older, responsabile azionario di Carmignac -. L’effetto contagio, a ben vedere, potrebbe esserci solamente» a fronte di un rischio capace di generare instabilità in aziende con modelli di business simili. «In realtà-riprende Older -, sono sottosettori quali, ad esempio, quello dei microprocessori, cartina tornasole della domanda economica globale,che in caso di calo potrebbero avere un’impatto sulla Borsa». Diversamente si tratta di situazioni che rimangono circoscritte alle singole aziende.
La diversità di business
Già, le singole aziende. Queste, è la critica di diversi esperti, sono spesso rappresentate come un “unicum”. Il che costituisce un errore. I vari acronimi quali “Faang” oppure “Bat” aiutano a richiamare nell’immediato un mondo legato all’hi-tech. E tuttavia mettono insieme modelli di business diversi tra di loro. Un esempio? Lo offrono Amazon e Facebook. Il colosso del commercio elettronico, tra le varie descrizioni presenti nell’ultimo bilancio, “spacchetta” ricavi e redditività nel seguente modo: Nord America, Attività internazionali e Amazon web services (il cloud computing). Orbene: nel 2017 l’ utile operativo generato nel Nord America è stato di 2,84 miliardi. Le attività internazionali, invece, sono risultate in perdita per 3,06 miliardi. Un rosso più che controbilanciato, però, dal risultato di Amazon web services: qui la redditività è stata di 4,33 miliardi.
Vale a dire: Amazon, a livello consolidato, guadagna soldi grazie al cloud computing. Facebook, da canto suo, lo scorso esercizio ha raggiunto un fatturato di 40,65 miliardi di dollari. Di questi ben il 98% è stato generato dalla pubblicità. Qui, è chiaro, il modello di business è fortemente concentrato (almeno finora) sulla pubblicità. Di conseguenza ogni evento che influenza quest’unica voce è determinante. Così la piattaforma social è caduta in Borsa per i timori sulle future entrate pubblicitarie. Paure legate, da una parte, all’onda lunga della direttiva europea Gdpr a tutela della privacy; e, dall’altra, al rischio di “appannamento” del brand conseguente, tra le altre cose, agli scandali quali quello con Cambridge Analytica. Insomma: una dinamica particolare che gli operatori hanno considerato limitata a Facebook.
I multipli
Ma non è solo questione di business model. Altro terreno di discussione sono le quotazioni delle stesse società tecnologiche. A fronte del loro lungo rally (in 3 anni il Nasdaq ha guadagnato circa il 70%) i prezzi possono indurre il timore della presenza di una bolla hi-tech. «Non vedo il rischio - dice Edward Yardeny, guru di Wall Street-. Le quotazioni restano molto più convenienti» rispetto a quelle della “follia” dotcom del 1999-2000. Peraltro «i prezzi -aggiunge Michael Strobaek, Global Chief Investment Officer di Credit Suisse - sono supportati dalla crescita di profitti reali e non inflazionati come accadde nel 2000. Solamente il 25% del rialzo delle quotazioni è conseguente all’incremento delle valutazioni sui multipli». Un andamento quest’ultimo dovuto, peraltro, all’accelerazione nelle vendite di software legate alla digitalizzazione dell’economia. «Il che -conclude Strobaek - è da considerarsi un “mega trend”» e non un evento contingente.
Insomma: gli stessi multipli sembrerebbero indurre alla “tranquillità”. Sennonché due sono le obiezioni. La prima è che la maggiore profittabilità è l’effetto anche del taglio delle tasse voluto dal Presidente Donald Trump. Cioè: non è frutto della crescita industriale. La seconda, invece, la fornisce il Cape Shiller. Vale a dire: il rapporto prezzo/utili che, prendendo la media dei profitti degli ultimi 10 anni, “sgancia” l’indicatore da fattori congiunturali. Ebbene: il multiplo sull’intero S&P 500 è salito a quota 33. Un livello elevato. Negli ultimi 30 anni solo al termine del rally del 2000 era stato superiore. Di nuovo: un campanello d’allarme che induce prudenza.
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