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Il caro petrolio affossa gli Emergenti. L’Aie: rischi per la crescita globale

Il petrolio è tornato a fare paura. I prezzi stanno salendo troppo velocemente e con il dollaro sempre più forte, che per molti Paesi amplifica l’effetto dei rincari, il rischio è che ci siano ricadute sulla crescita economica.

Dopo le ripetute denunce di Donald Trump – che però addossa la responsabilità del rally esclusivamente all’Opec – ieri anche il direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), Fatih Birol, ha suonato l’allarme.

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«Siamo piuttosto preoccupati che il caro energia sia tornato e che possa nuocere all’economia globale in un momento di vulnerabilità», ha detto Birol, appellandosi in generale ai «Paesi esportatori di greggio» (Usa compresi) perché facciano il possibile per aumentare le forniture al mercato. «Con questi prezzi mi aspetto che la crescita della domanda in India, in altre parti dell’Asia e nelle Americhe subisca un impatto negativo».

L’avvicinarsi delle sanzioni Usa contro l’Iran, la scarsa fiducia nella capacità dell’Opec e della Russia di colmare ogni carenza di offerta e una speculazione sempre più aggressiva nel puntare su ulteriori rialzi hanno accelerato il rally del petrolio negli ultimi mesi. Il Brent, che ha superato 85 dollari al barile, al record da 4 anni, è raddoppiato di prezzo rispetto all’estate 2017 e triplicato rispetto ai minimi di inizio 2016.

La retorica del «lower for longer» – petrolio meno caro più a lungo, grazie alla presunta onnipotenza dello shale oil americano – è ormai dimenticata e molti analisti prevedono che il prezzo del barile possa presto tornare a superare la soglia dei 100 dollari.

Ma i rincari in dollari sono poca cosa di fronte a quello che devono sopportare molti Paesi importatori, che pagano in altre valute. Anche perché il biglietto verde – cosa che non sempre è avvenuta in passato – si sta apprezzando insieme al petrolio.

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Anche euro, sterlina e yen hanno perduto terreno sul dollaro. Ma la sofferenza è particolarmente acuta per tutti i Paesi importatori di greggio le cui valute quest’anno sono andate a picco, situazione che riguarda molte economie emergenti, che ora si trovano intrappolate in un circolo vizioso: il costo delle importazioni sale, ma svalutare la moneta per incoraggiare le esportazioni e riequilibrare la bilancia commerciale non è più possibile.

Alcune valute sono già debolissime e ora non solo c’è l’inflazione da combattere, ma la stretta monetaria avviata dalla Fed sta facendo lievitare il costo del debito, spesso contratto in dollari. La salita dei rendimenti negli Usa contribuisce inoltre ad allontanare gli investitori dai mercati emergenti.

Chi sta pagando di più per il rally del greggio sono la Turchia e l’Argentina, che nel 2018 hanno subito una svalutazione di oltre il 35% rispetto al dollaro: il prezzo del barile è raddoppiato in lire turche ed è aumentato del 155% in pesos, a fronte di un rialzo di circa il 25% in dollari. Ma la lista dei Paesi in difficoltà è lunga.

Sul mercato dei futures il Brent oggi è ancora molto lontano dal record storico di luglio 2008 (147,50 $ in termini nominali). Le distanze si accorciano se si ragiona in euro: siamo già intorno a 75 €, contro il picco di 93 € del 2008. Molto peggio stanno in Brasile, dove il real è crollato: laggiù il prezzo del barile ha superato il picco del 2008 lo scorso marzo e non ha più smesso di correre. Anche in Messico e Sudafrica il record storico è molto recente e a breve potrebbe essere aggiornato anche in India, dove la rupia è scivolata ai minimi di sempre sul dollaro.

Il caro energia è un problema gravissimo per New Delhi, che importa l’80% del petrolio che consuma e ha una domanda che cresce a ritmi superiori a quelli cinesi. Il Governo, sotto pressione per le proteste e per l’avvicinarsi delle elezioni, ieri ha tagliato le accise sui carburanti, ma la misura inevitabilmente peserà sulle casse dello Stato, già in sofferenza per il forte indebitamento (in gran parte in dollari) e il crescente squilibrio della bilancia commerciale, che ha raggiunto un deficit da primato, oltre 18 miliardi di dollari.

Il mix tossico che minaccia l’India è simile a quello di altre economie asiatiche. Persino la Cina, impegnata in una guerra commerciale con gli Usa, ha consentito una svalutazione (sia pure pilotata) dello yuan. L’Indonesia, giustificando la scelta anche con il rincaro del petrolio, ha aumentato i tassi di interesse per ben cinque volte da maggio. La settimana scorsa è arrivata una stretta monetaria anche nelle Filippine.

Ci sono abbastanza nuvole all’orizzonte da giustificare il timore di una frenata dell’economia anche a livello globale.

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