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Fondo e polizza, quanto mi costate? Quattro «trappole» da…

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Fondo e polizza, quanto mi costate? Quattro «trappole» da evitare

(AdobeStock)
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Chi vende prodotti finanziari sa troppe più cose di chi li compra. Una distorsione informativa che rischia di costare caro al risparmiatore, anche se il quadro sta cambiando in fretta grazie alla Mifid 2, la direttiva europea in vigore da gennaio. «Mifid 2 ha due grandi meriti: l’aver preteso che i costi siano resi trasparenti e che chi svolge attività di consulenza ai clienti debba avere dei requisiti minimi di professionalità», spiega Giovanni Folgori, chief investment officier di Euclidea, sim indipendente.

Nel momento in cui però verranno resi noti tutti i costi sostenuti dagli investitori, potrebbero emergere brutte sorprese. «Ancor oggi, infatti, il costo non sempre è reso evidente, ma è sommerso in documenti complessi o viene indicato solo parzialmente - continua Folgori - . In più non vi è una sola voce comprendente tutti i costi, ma voci diverse: commissioni di gestione, di performance, di entrata o uscita, amministrative e così via». Per l’investitore privato valutare tutti questi elementi non è semplice e immediato.

Vediamo allora assieme al gestore di Euclidea sim quali sono le quattro principali “trappole” in cui il risparmiatore rischia di cadere:

1. Strumenti con fee distribuite su più livelli in cui si paga sia il servizio che il contenuto dell’investimento. «Non è raro che in queste circostanze solo l’ultimo strato di costo venga rivelato per dare un a parvenza di costi più bassi», spiega ancora Folgori. Gli strumenti “wrapper”, che hanno avuto un notevole successo di mercato, sono ad esempio le polizze unit-linked, le gestioni patrimoniali e i fondi di fondi, a volta addirittura contenenti fondi di una sola marca. «Di per sé questi prodotti non sarebbero negativi, se ben gestiti - continua il cio di Euclidea sim - invece spesso le gestioni e le unit-linked sono zeppe di fondi della casa, tipico esempio di conflitto di interessi in cui non viene selezionato il meglio per il cliente ma il più conveniente per chi vende. E spesso alle fee stratificate si mischiano anche banche depositarie dai costi gonfiati».

2. Strumenti con commissioni di performance che hanno periodi di esercizio del tutto irragionevoli (fino al mensile) o con parametri di riferimento inadeguati, che non rappresentano il mercato reale di investimento. La performance fee ideale è quella che ha una durata coincidente con la durata dell’investimento, se diventa più corta bisogna che sia almeno annuale e abbia dei meccanismi di protezione (High Watermark) in modo che il cliente non paghi se non in utile (potrebbe infatti risultare in utile su un periodo ma non su orizzonti più lunghi). «I regolatori avevano già negato la possibilità di mettere performance fee in presenza di un parametro non adeguato - sottolinea Folgori - ma alcuni gestori hanno semplicemente spostato i propri fondi verso giurisdizioni dove questa pratica è ancora permessa».

3. “Gestioni-confusione”, in cui si mischiano centinaia di prodotti, spesso pieni di fondi della casa ma anche titoli obbligazionari e azionari, certificati in modo da avere una falsa percezione di ricchezza del prodotto. «Spesso molti degli elementi che compongono queste gestioni sono di qualità ma in un’altra parte si annidano le porzioni più costose - continua il gestore indipendente - : tipicamente ci si trovano prodotti con performance fee parziali, ovvero che fanno pagare commissioni nel caso alcune parti di portafoglio guadagnino».

4. Certificati strutturati con pagamenti di cedole apparentemente attraenti dove si nascondono opzioni che rendono possibile la trasformazione dei certificati in azioni. «Molto spesso il cliente non è chiaramente informato di questa eventualità - chiarisce Folgori - e viene posto l’accento solo sulla consistenza della cedola. Naturalmente anche questi prodotti sono costosi e per di più il costo è di difficile comprensione perché richiede una valutazione che è possibile solo per professionisti del settore».

Riflessione finale: la normativa Mifid ha scelto di non seguire il modello duro e puro della Rdr britannica, che impone ai distributori di non ricevere nessuna remunerazione dai produttori. «Non necessariamente si tratta di una scelta sbagliata se si riuscirà ad ottenere un adeguato livello di trasparenza e se si incentiveranno gli investitori a farsi più domande», conclude il gestore di Euclidea sim.

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