Da un lato la Russia, dall’altro gli Stati Uniti, in mezzo l’Europa. È scoppiata la guerra fredda del gas, una contesa in cui per fortuna non si schierano missili bensì tubi e terminali per il Gnl, ma che sta diventando sempre più aspra da quando Washington – già politicamente ai ferri corti con Mosca – ha aperto la crociata per il «predominio energetico globale».
All’origine di tutto c’è il poderoso sviluppo delle risorse da shale, che ha proiettato gli Usa al vertice della classifica mondiale dei produttori di idrocarburi: oggi gli americani estraggono più petrolio dei sauditi e più gas dei russi. E da quando hanno liberalizzato l’export, circa tre anni fa, sono lanciati alla conquista dei mercati internazionali.
Il primo impianto di Gnl autorizzato a esportare, quello di Cheniere Energy a Sabine Pass, in Louisiana, ha già quattro treni di liquefazione e un quinto in costruzione. La stessa società ha appena inaugurato un altro terminal, a Corpus Christi in Texas, mentre da marzo è attivo quello di Dominion Energy a Cove Point (Maryland). Diversi altri impianti dovrebbero entrare in funzione il prossimo anno, potenzialmente spingendo la capacità di esportazione degli Usa a 65 milioni di tonnellate l’anno, più del triplo rispetto a quanto ha venduto all’estero nel 2018. Tanto, tantissimo gas. Forse troppo, oggi che le tensioni commerciali hanno spinto la Cina – il mercato più promettente – a snobbare il Gnl americano, imponendo dazi al 10% (che minacciano di salire al 25%).
L’Europa, dove la produzione locale è in declino, è una destinazione interessante. Ma finora il gas Usa non ha sfondato: nel 2017 ne abbiamo comprato l’equivalente di 3 miliardi di metri cubi (bcm), a fronte di consumi superiori a 500. Per oltre il 30% il nostro fabbisogno è stato soddisfatto dalla Russia, che continua a guadagnare quote di mercato: le esportazioni di Gazprom (Ue più Turchia) si avviano a superare 200 miliardi di metri cubi quest’anno, un record storico.
Non è un problema di rigassificatori. Nel Vecchio continente ce ne sono fin troppi, tant’è che vengono utilizzati solo per il 27% della capacità. Il vero problema è che le leggi dell’economia non avvantaggiano il gas americano: le forniture tendono a raggiungere l’Asia, dove spuntano prezzi migliori, e comunque solo occasionalmente riescono a competere in Europa con quelle di altri produttori, specie nei Paesi (come l’Italia) che dispongono di molte alternative.
Se gli Usa vogliono davvero conquistare il mercato europeo, a scapito della Russia, devono offrire sconti eccezionali (strada poco praticabile, visto che gli esportatori sono società private). Oppure devono usare altri argomenti.
L’uso del gas come arma politica – non più solo da parte di Mosca, ma oggi anche da Washington – è sotto gli occhi di tutti. Donald Trump sta usando con disinvoltura il combustibile come merce di scambio nelle trattative per nuovi accordi commerciali: maggiori acquisti di Gnl «made in Usa» vengono sollecitati come un requisito indispensabile per ottenere sollievo da dazi o sanzioni. E la strategia inizia a raccogliere frutti.
A luglio Trump ha strappato al presidente dell’Ue Juncker un impegno (teorico) ad accelerare le importazioni, se necessario anche promuovendo nuovi rigassificatori. La Germania, maggior cliente di Gazprom nella Ue, ha deciso di agevolare la costruzione del suo primo terminal per ricevere Gnl: un’opera che non trova grandi giustificazioni dal punto di vista economico (né garantisce un accesso esclusivo alle metaniere dagli Usa), ma grazie alla quale Berlino – accusata da Trump di lasciarsi tenere «in ostaggio» da Mosca, attraverso il gas – spera di proseguire indisturbata con il raddoppio del Nord Stream, il gasdotto che porta le forniture russe attraverso il Baltico. Washington minaccia infatti sanzioni che colpirebbero non solo Gazprom, che controlla il progetto, ma anche i suoi soci europei (Wintershall, Uniper, Shell, Omv ed Engie).
L’avanzata degli Usa procede in modo deciso nell’Europa dell’Est, in Paesi che un tempo stavano dietro la cortina di ferro e che fino a pochi anni fa dipendevano al 100% dal gas russo. Grazie al rigassificatore di Klapeida, inaugurato nel 2014, la Lituania per la prima volta nella storia ha aperto le porte a fornitori diversi da Gazprom e ora – nonostante le grandi distanze – compra anche dagli Usa. La Polonia, fiera oppositrice di Mosca, si è già spinta ben oltre: Varsavia, che solo dal 2016 è in grado di importare Gnl, negli ultimi due mesi ha sottoscritto ben tre contratti di fornitura ultraventennali con le società americane Cheniere Energy e Venture Global Lng. Grazie anche al gas qatarino e norvegese il Governo polacco punta a non rinnovare il contratto con Gazprom, in scadenza nel 2022. Inoltre è in prima fila nel contrastare il Nord Stream 2, contro cui ha aperto anche un’azione antitrust.
L’arrivo del gas americano sui mercati internazionali – è bene chiarirlo – è stato una svolta decisamente positiva, da cui i consumatori europei hanno tratto grandi benefici. Non solo è aumentata la concorrenza, utile a contenere i prezzi, ma i fornitori Usa hanno offerto nuove e più vantaggiose condizioni di vendita, che hanno messo in moto una vera e propria rivoluzione nel settore del gas, sia quello liquefatto, sia quello venduto via pipeline.
La presenza del Gnl «made in Usa» – venduto senza vincoli di destinazione e senza obblighi di ritiro – è stata determinante per convincere gli altri fornitori (Gazprom compresa) a rimodulare strategie di marketing e contratti. Russi, norvegesi e algerini oggi hanno eliminato o attenuato l’indicizzazione al petrolio dei prezzi del gas, di cui molti consumatori si lamentavano, e sono diventati più flessibili nei volumi e nelle condizioni di consegna. Mosca è inoltre sbarcata anche sul mercato spot, con aste periodiche organizzate da Gazprom, e ha accelerato sul fronte del gas liquefatto.
I meriti del Gnl americano, insomma, non mancano: in pratica è riuscito a mettere un tetto ai prezzi (e forse anche alle pretese) di Gazprom e altri produttori “storici”. Conquistare l’Europa però è un’altra faccenda.
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