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Alluminio, gli Usa graziano Rusal (ma sul prezzo pesa la Cina)

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Alluminio, gli Usa graziano Rusal (ma sul prezzo pesa la Cina)

Le sanzioni americane contro Rusal fino a poco tempo fa sembravano la minaccia più seria per il mercato dell’alluminio. Ma l’annuncio della loro rimozione è stato accolto quasi con indifferenza al London Metal Exchange: il prezzo del metallo era già ai minimi da 16 mesi e si è mosso davvero poco sulla notizia.

Dopo un ribasso immediato intorno all’1%, che ha portato l’alluminio a 1.905,50 dollari per tonnellata (base tre mesi), le quotazioni si sono stabilizzate intorno a 1.920 dollari.

Più vistosa la reazione in Borsa di Rusal, che è arrivata a guadagnare il 27%, riportandosi sui livelli di aprile, quando Washington aveva deciso di punire il magnate russo Oleg Deripaska e tutte le sue società per la presunta vicinanza al Cremlino e le interferenze con le elezioni Usa.

Gli investitori in realtà sono preoccupati soprattutto per la frenata dell’economia globale e per la debolezza dei consumi in Cina: un allarme quest’ultimo che ha portato i maggiori produttori locali a convocare per oggi una riunione a Nanning, la capitale del Guangxi, per valutare forme di sostegno ai prezzi.

In un vertice simile a fine 2015, altro periodo difficilissimo per il settore, le fonderie cinesi avevano deciso tagli di produzione per 500mila tonnellate, ma la crisi a quel punto era già così grave da aver portato alla chiusura di 4,4 milioni di tonnellate di capacità, secondo Reuters.

Quanto alle vicende di Rusal, il pieno ritorno in attività potrebbe rimettere in circolo scorte di alluminio accantonate dal produttore russo, che Citi stima ammontino a 300mila tonnellate, ma l’effetto sarà probabilmente diluito nel tempo e comunque i magazzini Lme custodiscono già la bellezza di 1,2 milioni di tonnellate di metallo.

Il mercato in ogni caso aveva scontato il “perdono” degli Usa a Rusal, che infatti è puntualmente arrivato, esteso anche alla holding EN+ e all’utility EuroSibEnergo (Ese).

Il segretario al Tesoro Stephen Mnuchin, messo sotto pressione soprattutto dall’industria europea, aveva già fatto marcia indietro dopo aver constatato l’enormità del danno collaterale provocato dalle sanzioni contro Deripaska. E Rusal aveva ottenuto ben sei dilazioni, l’ultima dei quali aveva spostato la scadenza al 7 gennaio.

La spada di Damocle in realtà non è stata ancora rimossa del tutto. Le sanzioni saranno cancellate fra 30 giorni solo se il Congresso non farà opposizione all’accordo negoziato dall’Office of Foreign Assets Control (Ofac). E qualche voce critica si è già levata tra i parlamentari Usa, non del tutto convinti dai dettagli del piano.

Deripaska ridurrà dal 70% al 44,95% la quota in EN+, definita dal Tesoro il «fulcro» dell’accordo, visto che è attraverso la holding che l’oligarca controllava Rusal ed Ese. Una parte delle azioni (il 24% secondo fonti Bloomberg) andrà alla banca statale russa Vtb, il cui ceo Andrey Kostin è egli stesso sulla blacklist degli Usa. Una quota più piccola finirà in mano a una onlus, che la stessa Bloomberg individua come la Volnoe Delo, fondata dallo stesso Deripaska.

Anche Glencore diventerà socia, attraverso lo swap (già previsto in passato) di azioni Rusal con azioni EN+.

Deripaska comunque non riceverà nessun corrispettivo per le transazioni, né potrà incassare i futuri dividendi. Inoltre Rusal e le altre società sono state costrette a una sorta di libertà vigilata: dovranno rinnovare i consigli di amministrazione assegnando metà dei posti a cittadini americani o britannici e redigere frequenti resoconti e bilanci da sottoporre alle autorità Usa, che si riservano di reintrodurre le sanzioni in qualsiasi momento.

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