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Sconto dall’Eba sugli investimenti in private equity

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Sconto dall’Eba sugli investimenti in private equity

Gli investimenti «strategici e commerciali» delle banche nei fondi di private equity non dovranno più essere obbligatoriamente considerati come «asset ad alto rischio» ai fini delle regole sull’assorbimento di capitale. Per il sistema bancario e finanziario, la svolta non è di poco conto. Le banche, come stabilito nelle riforme di Basilea, sono state obbligate finora a contabilizzare qualunque investimento nei fondi di private equity come «esposizione su attività ad alto rischio» e quindi ad altissimo assorbimento di capitale: basti pensare che il fattore di ponderazione applicato su questa tipologia di investimenti è pari - e spesso anche superiore - al 150% del valore dell’esposizione in bilancio.

A deciderlo è stata l’Agenzia bancaria europea fino al 2018 guidata dall’italiano Andrea Enria, che dopo una lunga consultazione con tutte le authority nazionali ha diffuso le nuove «Linee guida finali sul trattamento delle esposizioni associate ad attività ad alto rischio», una tipologia finora fortemente penalizzata dal CRR, il Regolamento europeo sui Requisiti patrimoniali. Per avere un’idea della forbice del rischio, basti pensare che il fattore di ponderazione per l’esposizione verso imprese senza rating è ora del 100%, mentre è del 75% per le esposizioni sul mercato retail e del 100% per le esposizioni su titoli azionari.

Nell’articolo 128 del CRR (secondo paragrafo) sono stati fissati infatti sia i parametri per stabilire il grado di pericolosità di un’esposizione verso i fondi, sia la tipologia degli operatori considerati strutturalmente «ad alto rischio». Oltre ai fondi di private equity, sono considerati «molto pericolosi» anche i fondi di venture capital, gli hedge fund e i fondi immobiliari di tipo speculativo: per questa categoria, il fattore di ponderazione minimo per calcolare l’assorbimento di capitale è pari al 150% del valore in bilancio.

Per l’Eba, la caratteristica delle esposizioni nei fondi private equity è quella di restare a lungo nei bilanci delle banche «con l’obiettivo di generare un profitto attraverso, per esempio, un leveraged buyout, un’offerta pubblica iniziale o qualsiasi altro modo di vendere il capitale netto». Se la banca ha l’intenzione di sviluppare una reale relazione strategica con il fondo in cui ha investito, «l’esposizione non è più soggetta al parametro minimo del 150%». Quest’ultimo può ancora essere assegnato alla classe di attività ad alto rischio per altri motivi, ma non deve più essere considerato automaticamente come un investimento in private equity.

Per quanto riguarda la nozione di investimenti in società di venture capital, le linee guida chiariscono che ciò include le esposizioni verso operatori che forniscono finanziamenti a imprese di nuova costituzione, finanziamenti per lo sviluppo e la commercializzazione di un nuovo prodotto o per l’espansione dell’attività d’impresa. Tali definizioni si applicano agli investimenti diretti e ogni volta che l’approccio «look-through» è utilizzato per le esposizioni relative all’acquisto di titoli azionari o di quote in fondi di investimento collettivo ( OIC).

Per quanto attiene invece il più generale rapporto diretto tra banche e imprese, e in particolare le relazioni con le piccole e medie imprese, l’Eba ha chiarito un punto di fondamentale importanza per l’intero sistema: in via di principio, l’authority ha stabilito che i prestiti e gli investimenti alle Pmi non andrebbero considerati sempre come «speculativi o specializzati», e quindi strutturalmente ad «alto rischio nel calcolo dell’assorbimento di capitale. «Le Pmi - ha scritto la stessa Eba nel suo documento - hanno un ruolo fondamentale nel supporto e nella crescita dell’economia: le banche devono tenerne conto, e la valutazione delle esposizioni alle Pmi non deve incidere negativamente sul loro finanziamento».

Nel suo complesso, dunque, la manovra dell’Eba rappresenta un passo importante sotto più profili: da un lato, dovrebbe consentire alle banche di liberare dal bilancio risorse aggiuntive da investire nell’economia reale, e dall’altro dovrebbe incentivare un maggior numero di «relazioni strategiche» di stampo industriale tra banche e fondi di private equity.

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