Debitori che non trovano nessuno con cui parlare. Nemmeno quando (sembra strano ma capita) vorrebbero pagare. Giudici che estinguono le esecuzioni immobiliari perché chi gestisce i crediti in sofferenza non paga i contributi dovuti. Saranno casi limite, segnalati al «Sole 24 Ore», ma basta parlare con chiunque abbia a che fare con il mondo dei crediti in sofferenza per rendersi conto che un problema esiste eccome: le banche hanno venduto grandi quantità di Npl (oltre 100 miliardi in pochi anni), ma i soggetti che li hanno comprati troppo spesso non sono dotati di strutture adeguate per gestirli. Gli istituti di credito avranno insomma alleggerito i loro bilanci, ma il nodo dei crediti deteriorati è tutt’altro che sciolto. È stato solo spostato. E considerando che dietro i crediti in sofferenza (chiamati freddamente Npl) ci sono famiglie, imprese e persone, qualche domanda bisogna porsela: questa massa di prestiti deteriorati è davvero finita in buone mani?
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Bastano pochi numeri, elaborati dal Sole 24 Ore, per farsi venire qualche dubbio: i primi sette servicer non bancari che operano in Italia (si chiamano così le società che materialmente lavorano sul recupero dei crediti deteriorati per conto degli investitori che li hanno comprati dalle banche) da fine 2016 a fine 2018 hanno visto crescere il carico di lavoro del 73%, ma hanno aumentato l’organico solo del 21%. Hanno cioè quasi raddoppiato gli Npl da gestire (da 139 miliardi a fine 2016 a 241 a fine 2018), ma hanno solo lievemente incrementato il personale incaricato di farlo. Questo spinge i servicer da un lato a rendere più automatiche, veloci e dozzinali le procedure legali (precetti e azioni legali a tambur battente), dall’altro - in alcuni casi - costringe i fondi che hanno comprato gli Npl a rivendere pezzi dei loro portafogli ad altri investitori anche solo per “aggiustare” le performance finanziarie. Insomma: a fare trading di Npl.
La grande abbuffata
«The place to be». Nel luglio 2017 uno studio di Pwc definiva così l’Italia: «Il posto dove trovarsi». In effetti le banche
stavano svendendo quantità enormi di crediti deteriorati e, nella fretta, erano costrette a farlo a prezzi stracciati. Così
su questo mercato si sono fiondati investitori da tutto il mondo: nomi internazionali come Fortress, Pimco, Crc, Bayview,
Anacap, Cerberus, Bain Capital Credit, Hoist Finance o Varde partners, ma anche le divisioni specializzate di banche d’affari,
fino a investitori italiani come Algebris o la storica Banca Ifis. «La sensazione - osserva un addetto ai lavori di lungo
corso che preferisce l’anonimato - è che abbia prevalso in molti di questi soggetti una logica puramente finanziaria e speculativa:
si sono accaparrati più Npl possibile, senza preoccuparsi davvero di come gestirli».
Una volta comprati i pacchetti di crediti deteriorati, questi investitori li hanno dati ai servicer (talvolta di loro proprietà, comprati anche insieme agli Npl dalle banche, talvolta su mandato) per l’attività vera e propria di recupero crediti. Il problema è che i servicer si sono trovati all’improvviso masse enormi da gestire. E incrementare il personale non è facile. Cerved, secondo maggiore in Italia, a fine 2016 gestiva 15,5 miliardi di Npl con 813 persone. Oggi gestisce 41 miliardi di Npl (quasi il triplo), ma il personale è aumentato solo a 1.230. Do Bank, numero uno in Italia nel settore ormai unito a Italfondiario, ha mantenuto le masse stabili (intorno agli 80 miliardi), ma ha ridotto il personale da 3.800 del 2016 a 3mila unità oggi. Credito Fondiario (che svolge anche il ruolo di master servicer) ha aumentato gli Npl da 6,7 a oltre 50 miliardi, con il personale passato da 110 a 250. Ovvio che queste società, e tutte quelle del settore, puntano sull’efficienza e sulla tecnologia. Ma qualche problema di “sottocapacità” - soprattutto nei soggetti più piccoli e in quelli più giovani - rischia di esistere.
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«Non tutti i servicer hanno le spalle abbastanza larghe per investire in personale e tecnologia per gestire portafogli aumentati così velocemente», conferma Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved Credit management. «Il personale necessario dipende dal tipo di crediti - precisa Guido Lombardo, Chief Investment Officer di Credito Fondiario -. Alcune società hanno fatto crescere la struttura con attenzione e con gli strumenti informatici adeguati, mentre credo che altre abbiano fatto il passo più lungo della gamba». «Il problema principale è tecnologico - aggiunge Antonella Pagano, Business Development Director Intrum Italy -. Per gestire Npl serve un’infrastruttura hi tech adeguata per caricare i documenti». Il punto è proprio questo: tutti cercano sinergie ed efficienze, ma non tutti ci riescono. Alcuni servicer affidano ad ogni singolo gestore anche centinaia di debitori morosi, rendendo quasi impossibile dedicare attenzione a tutti.
Npl in odore di bolla?
Il problema spesso sta a monte, nella due diligence dei portafogli. Quando una banca vende Npl, i fondi interessati ad acquistare
fanno fare una valutazione dei pacchetti (e dei possibili incassi futuri) ai servicer. «Questo crea un potenziale conflitto
di interessi», osserva Paolo Sgritta, amministratore delegato di Sistemia. Perché induce i servicer a promettere e stimare
performance ottime, sperando che il fondo compri il pacchetto e poi lo dia in gestione allo stesso servicer. «Questo ha spinto
ultimamente alcuni servicer a spararla grossa», chiosa Sgritta. In effetti vari addetti ai lavori sostengono che in alcune
cessioni di Npl la competizione tra i fondi si è fatta così agguerrita, che i prezzi degli Npl sono saliti. Troppo, rispetto
alla qualità dei crediti.
Secondo i dati di Banca Ifis, il prezzo medio dei portafogli di crediti misti (ipotecari e chirografari) è cresciuto in Italia dal 19% del valore lordo nel 2017 al 28% nel 2018. «Soprattutto nel 2016 e 2017 abbiamo visto processi competitivi di vendita di Npl concludersi a prezzi assolutamente fuori mercato, a nostro parere - racconta Claudio Manetti, amministratore delegato di Fire -. Questo ha, per così dire, “dopato” questo tipo di transazioni». Tanti fondi hanno avuto la “smania” di comprare Npl per aumentare le masse, per crescere velocemente. Perché l’Italia era il «posto dove stare». Ma presto o tardi i nodi della grande abbuffata di Npl rischiano di venire al pettine: «I fondi sono venuti in Italia con aspettative di grandi guadagni, ma credo che non per tutti sarà così», chiosa un top manager del settore. Come, del resto, è avvenuto in passato.
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Il mercato delle figurine
E qui casca l’asino. Nel mezzo di questo banchetto, è possibile che qualcuno abbia la tentazione di “aggiustare” le performance
finanziarie dei portafogli vendendone alcune parti. Insomma: facendo trading di Npl. «Con la vendita di qualche pacchetto
si migliora la performance finanziaria dell’intero portafoglio», ammette il numero uno di un servicer. È forse anche per questo
che si sta sviluppando un mercato “secondario” di crediti in sofferenza: un mercato dove a vendere non sono più le banche,
ma gli stessi fondi che dalle banche hanno comprato. Secondo i dati di Banca Ifis, nel 2015 e 2016 il mercato secondario produsse
il 31% e il 51% delle compravendite totali di Npl. Nel 2017 e 2018, a causa di una gigantesca attività di vendita da parte
delle banche, il mercato secondario è calato al 4% e al 2% del totale. Ma nel 2019 si stima una forte ripresa: al 39% secondo
Banca Ifis. Insomma: quasi una vendita di Npl su due quest’anno non sarà effettuata da banche, ma da investitori che “rigirano”
Npl ad altri investitori. Come figurine.
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Bene inteso: che ci sia un mercato secondario di Npl è normale. Chi acquista portafogli misti di Npl spesso preferisce vendere alcune specifiche porzioni a chi è più specializzato in nicchie di mercato. Ma a volte la sensazione - diffusa tra gli addetti ai lavori - è che lo spirito sia un altro. Insomma: che ci sia semplicemente la voglia di “aggiustare” le performance o di fare facili utili con il “trading” di Npl.
Il mercato secondario è così opaco che è difficile capire chi abbia fatto qualcosa del genere. Certo è che alcune operazioni non sono passate inosservate tra gli addetti ai lavori. Per esempio quella di Crc e Bayview: prima hanno comprato (con una certa leva, si dice) alcuni pacchetti di Npl, poi hanno iniziato a rivenderli. Nel 2018 hanno ceduto un pacchetto di 425 milioni e nel 2019 hanno messo in vendita un altro pacchetto da 2 miliardi. Il tutto nel giro di pochi anni. In vendita ci sono poi 6 miliardi di Npl di Dgad International (del gruppo Credit Agricole). Il fondo Anacap ha invece deciso di cambiare servicer, passando a Sistemia, perché il precedente (quale sia è difficile capirlo) non stava garantendo le performance adeguate. Ma anche la stessa Banca Ifis è molto attiva sul mercato secondario, con ingenti cessioni di Npl talvolta alla fine dell’anno. «Si tratta di “code” di pacchetti che non lavoriamo più», spiegano da Banca Ifis. In fin dei conti, resta una domanda: che impatto avrà tutto questo sulle famiglie e le imprese che stanno dietro gli Npl? È difficile prevederlo. Certo è che maggiore trasparenza (e vigilanza) in questo settore non guasterebbe.
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