L’asse petrolifero tra Russia e Arabia Saudita inizia a scricchiolare. L’efficacia della collaborazione tra i due giganti energetici, che da oltre due anni stanno coordinando le politiche di produzione, è sotto gli occhi di tutti: le quotazioni del greggio dopo l’ennesimo crollo a fine 2018 sono di nuovo in recupero e il Brent ora scambia sopra 66 dollari al barile, ai massimi da tre mesi.
Ma per Mosca e Riad tenere in piedi l’alleanza sta diventando sempre più difficile, nonostante le rassicurazioni offerte al mercato.
Ieri si è mosso il Cremlino, con una nota in cui riferisce di una telefonata tra il presidente russo Vladimir Putin e il re saudita Salman: i due avrebbero ribadito il proprio sostegno a «proseguire il coordinamento» nel settore degli idrocarburi, trovandosi d’accordo sul «rafforzare ulteriormente i molteplici legami» tra i loro Paesi.
La settimana scorsa Khalid Al Falih, ministro saudita dell’Energia, aveva ripetuto al Financial Times che Riad intende investire nel gas liquefatto in Russia, come primo passo per una nuova strategia che impegnerà Saudi Aramco in attività upstream anche all’estero.
Nella stessa intervista Al Falih aveva tuttavia lanciato anche altri messaggi importanti, relativi ai mercati petroliferi e alle relazioni con Mosca, segnalando che a marzo l’Arabia Saudita ridurrà la sua produzione di greggio ad appena 9,8 milioni di barili al giorno, dal record storico di 11,09 mbg di novembre, mentre l’export scenderà a 6,9 mbg (da 8,2 mbg).
In entrambi i casi sarebbe il livello più basso da oltre due anni, nonché un taglio più che doppio rispetto agli impegni assunti a dicembre, al termine di un faticoso vertice in cui l’Opec Plus aveva trovato un accordo solo grazie alla mediazione russa.
I sauditi sono già andati oltre i tagli promessi, estraendo solo 10,2 mbg a gennaio. Mosca invece non si sta mostrando rigorosa come in passato: doveva ridurre di 230mila bg, sia pure «gradualmente», ma ha tagliato meno di 50mila, davvero troppo poco. Anche perché la domanda di greggio, in frenata con l’economia globale, suggerisce la necessità di tagli produttivi non certo attenuati ma ancora più netti e duraturi.
Il ministro russo Alexandr Novak ha cercato di aggiustare il tiro dopo l’intervista di Al Falih, dichiarando che Mosca sta accelerando la chiusura dei rubinetti, in modo da centrare in anticipo gli obiettivi di produzione, ad aprile anziché a maggio. Ma nel frattempo è filtrata alla stampa una lettera che il potente Igor Sechin, ceo di Rosneft, avrebbe inviato a Putin per lamentarsi dei danni che l’alleanza con l’Opec starebbe provocando alla Russia.
Un passo indietro da parte di Mosca affosserebbe del tutto il progetto di trasformare l’Opec Plus in un organismo stabile. Il progetto è già stato rallentato dai dissapori interni all’Opec e dalla minaccia – ben più pericolosa – di incappare nell’ira degli Stati Uniti.
Oltre Oceano l’iter parlamentare del disegno di legge Nopec (No Oil Producing and Exporting Cartels) procede in modo spedito. L’eventuale entrata in vigore aprirebbe la strada a un’azione antitrust contro l’Opec e a maggior ragione contro una sua
versione allargata.
@SissiBellomo
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