Nella gestione dei derivati del Tesoro non c’è stato il danno erariale da 3,9 miliardi contestato dalla Procura della Corte dei conti all’ex capo della direzione del debito pubblico Maria Cannata e agli ex dg del Tesoro Domenico Siniscalco, Vittorio Grilli (poi ministri dell’Economia) e Vincenzo La Via.
Nella sentenza 50/2019 depositata ieri la prima sezione centrale d’appello della Corte dei conti conferma l’impostazione della sezione Lazio (sentenza 348/2018, del 15 giugno scorso). E chiude definitivamente il processo contabile record che in questi anni ha dominato il dibattito sulle funzioni dei dirigenti pubblici e sui limiti alla possibilità di contestarne in giudizio le decisioni. Per le difese parlano Giuseppe Iannacone e Riccardo Lugaro, che si dicono «lieti» e soprattutto «per nulla sorpresi» dal verdetto. Il proscioglimento arriva per «difetto di giurisdizione» della Corte dei conti. Ma proprio per la natura della contestazione questa formula, che in altri processi rappresenta una via d’uscita secondaria rispetto al «proscioglimento nel merito», diventa qui lo snodo centrale della vicenda. E del suo significato che, con proporzioni diverse, interessa da vicino la vita quotidiana dei dirigenti e dei funzionari di tutte le amministrazioni pubbliche. Anche di chi gestisce cifre sideralmente lontane dai miliardi che viaggiano sulle scrivanie dei vertici del Mef.
A rendere da record il processo contabile chiuso ieri sono ovviamente le cifre del danno erariale contestato: 2,76 miliardi a carico di Morgan Stanley, la banca “controparte” che nella lettura della Procura avrebbe svolto il ruolo di consulente privilegiato del ministero, 982,5 milioni per Maria Cannata, poco meno di 96 milioni per La Via, 84,7 per Siniscalco e quasi 20 milioni per Grilli.
A produrre il danno sarebbero state le clausole di early termination che tra fine 2011 e inizio 2012, in piena crisi dello spread, hanno permesso alla banca d’affari di pretendere la chiusura anticipata di sei derivati, facendo staccare al Tesoro assegni da 3,1 miliardi. Per coprire il pagamento il Mef ha dovuto emettere nuovi titoli, i cui interessi hanno alimentato il danno contestato facendolo lievitare a 3,9 miliardi. Nell’ottica della Procura, queste clausole avrebbero dato a Morgan Stanley le chiavi di casa nella gestione del debito pubblico, in un rapporto da consulente privilegiato che avrebbe permesso il giudizio contabile a suo carico.
I giudici d’appello, come i colleghi di primo grado, respingono questa tesi perché il Mef è una «controparte qualificata», abitato da «professionalità di altissimo rilievo nazionale e internazionale» e animato da «procedure assai complesse» che mettevano sotto una «analisi assai rigorosa» ogni aspetto delle proposte di Morgan Stanley come degli altri 19 operatori iscritti nell’elenco degli «specialisti».
La spesa, i 3,1 miliardi, c’è stata, e anzi le scommesse sui tassi hanno continuato a produrre costi anche negli anni successivi. Ma alla base c’è lo scenario prodotto dalla crisi del debito sovrano, inedito e imprevedibile anche dai modelli probabilistici del ministero. E il giudizio sul dolo o sulla colpa grave che sono i presupposti del danno erariale, spiega la sentenza depositata ieri, può fondarsi solo su «fatti e circostanze, al momento della scelta, conoscibili con la diligenza esigibile in ragione del ruolo dell’amministratore pubblico». La Corte, in pratica, non crea una zona franca che nega a priori possibili responsabilità dei dirigenti. Le loro decisioni sono «sempre sindacabili», ma il giudizio deve colpire quelle «irragionevoli, incongrue, illogiche o irrazionali». Secondo la sentenza, la procura ha invece provato a mettere sul banco degli imputati l’intera strategia di gestione del debito, strategia «perfettamente legittima, perseguita per decenni e sempre approvata dai vertici governativi» in una linea decisionale che va dal futuro presidente della Bce Draghi, dg del Tesoro dal 1991 al 2001, al futuro Capo dello Stato Ciampi, ministro del Tesoro dal 1996 al 1999.
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