Andamento titoli
Vedi altroSarà un addio al petrolio molto limitato quello del fondo sovrano norvegese, il più grande del mondo, con oltre 900mila miliardi di euro di patrimonio. Dopo anni di gestazione, il piano per disinvestire dal settore – attenuando i rischi per un’economia molto dipendente dagli idrocarburi – è stato approvato dal Governo e il via libera del Parlamento viene ormai dato per scontato.
Ma le intenzioni originarie sono state decisamente annacquate: ad essere messe al bando saranno solo le società che operano esclusivamente nell’E&P, ossia nell’esplorazione e produzione di idrocarburi.
Tutti salvi quindi i colossi petroliferi diversificati, di molti dei quali Oslo è – e a questo punto continuerà ad essere – azionista. In portafoglio le quote più rilevanti sono quelle in Royal Dutch Shell, Bp e Total, comprese tra il 2 e il 2,5%, mentre di Eni i norvegesi possiedono l’1,6%, per un valore di oltre 800 milioni di euro.
In Borsa le sottigliezze del Governo norvegese non sono state subito comprese e nell’immediato l’ok al piano di cessioni ha accelerato le vendite di tutti i titoli del comparto, che peraltro erano già sotto pressione sulla scia dei ribassi del petrolio (ieri, per altri motivi, il prezzo del barile è arrivato a perdere più del 3%).
In realtà a Piazza Affari – dove Oslo è il terzo investitore estero, dopo Blackrock e Vanguard – non dovrebbe esserci nessuna dismissione in vista. Nella blacklist redatta dal ministero delle Finanze e da Norges Bank non ci sono né l’Eni, né Saipeme Snam , di entrambe le quali il Government Pension Fund Global (Gpfg) a fine 2018 possedeva l’1,4%. Non c’è neppure Maire Tecnimont (2,3%).
A sorpresa l’elenco include però Saras, di cui in norvegesi hanno il 3,61%, valorizzato 66,4 milioni di dollari. La società dei Moratti – che opera nella raffinazione, ma non ha mai direttamente estratto una goccia di greggio (né una molecola di gas) – potrebbe comunque essere finita per errore tra gli investimenti da dismettere.
La lista, redatta in base alle categorizzazioni Ftse Russell, comprende in tutto 134 nomi dell’E&P, tra cui moltissime compagnie statunitensi che operano nello shale oil, come Eog Resources e Pioneer Natural Resources. Ci sono inoltre il colosso cinese Cnooc, la russa Novatek, le indiane Indian Oil e Reliance Industries. Partecipazioni che saranno dismesse «gradualmente nel tempo» e che in tutto valgono 7,6 miliardi di dollari, meno dell’1% del patrimonio del fondo sovrano.
Anche dal punto di vista finanziario la scelta finale del Governo si è rivelata in fin dei conti di basso profilo. L’obiettivo iniziale era quello di espellere del tutto dal fondo le partecipazioni nell’Oil & Gas, perché inutili ai fini della diversificazione, visto che il fondo stesso è alimentato proprio dai proventi di quell’industria – che in Norvegia genera un quinto del Pil – e che per statuto ha l’obiettivo di proteggere il benessere del Paese nei periodi di ribasso dei prezzi degli idrocarburi. Una funzione ancora più importante oggi che il mondo si è messo in marcia verso la decarbonizzazione.
Scelte più radicali avrebbero comportato la dismissione di quote in 341 società, per un valore di 37 miliardi di dollari. Ma Oslo, attirandosi critiche dal fronte ambientalista, ha deciso diversamente. «La lobby di Big Oil – ha commentato Sony Kapoor di Redifine – ha vinto sulla prudenza finanziaria e sul buon senso».
In realtà il Governo norvegese ha chiarito oltre ogni dubbio che la mossa non è mai satata ispirata da spirito ecologico: «Sarebbe triste se in futuro non potessimo investire in quelle società», ha affermato la ministra delle Finanze Siv Jensen, con riferimento alle Major petrolifere, aggiungendo che secondo le previsioni quasi tutto il futuro sviluppo delle rinnovabili non dipenderà da aziende che ne hanno fatto il loro core business.
La Norvegia – uno dei maggiori fornitori mondiali di combustibili fossili, con 1,9 milioni di barili al giorno di petrolio e 120 miliardi di metri cubi l’anno di gas – ribadisce inoltre di non aver alcuna intenzione di disinvestire dai giacimenti (in tutto ha interessi in 35 siti produttivi e 186 licenze), né prevede di ridurre la quota di controllo nella compagnia nazionale: Equinor – l’ex Statoil, che ha cambiato nome proprio per riflettere ambizioni “verdi” – è per il 67% di proprietà dello Stato, che nel 2019 si aspetta di ricevere 16,6 miliardi di corone di dividendi (1,7 miliardi di euro).
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