Quando BancoBpm ha emesso pochi giorni fa un bond subordinato (del tipo Tier 1), un dettaglio non poteva non balzare agli occhi: il titolo offre agli investitori una cedola dell’8,75%. Il punto è che la pagherà solo agli investitori istituzionali: dato che i bond Tier 1 sono rischiosi per definizione (sono infatti i secondi dopo le azioni a saltare in caso di crack di una banca per la normativa sul bail-in) offrono interessi elevati e non sono accessibili ai piccoli risparmiatori. Com’è giusto che sia.
Eppure qualche elemento stride. O, quantomeno, fa riflettere: le banche per anni hanno collocato a piene mani obbligazioni (anche subordinate) alle famiglie. Per anni l’hanno fatto offrendo loro rendimenti troppo bassi rispetto ai rischi che i risparmiatori correvano, confidando nella loro inesperienza. Ora che invece emettono bond subordinati ai giusti rendimenti, i risparmiatori non possono più acquistarli. Per contro, però, possono comprare le azioni delle stesse banche, che sono più rischiose dei bond subordinati e hanno una remunerazione molto inferiore.
Gli anni del parco buoi
Sebbene il blocco dei bond subordinati alle famiglie sia per molti versi condivisibile, dopo i danni che sono stati fatti al risparmio dai casi Etruria & C., ripercorrere questa storia è utile per capire come spesso in Italia si passi da un eccesso all’altro. Negli anni più bui della crisi le banche italiane faticavano a trovare sui mercati internazionali qualcuno disposto a prestare loro dei soldi. Questo è accaduto soprattutto dopo il crack di Lehman Brothers (2008 e 2009) e durante la crisi dello spread (2011 e 2012). In quegli anni, dunque, il sistema bancario italiano ha attinto dalle famiglie per raccogliere quei capitali che non riusciva a trovare altrove: in quei soli 4 anni, secondo i dati della Consob, hanno così collocato obbligazioni bancarie alla clientela retail per un totale di 578 miliardi di euro.
Il problema è che tra queste c’erano anche le obbligazioni di banche pericolanti, come quelle della Popolare Etruria, di Banca Marche e di tutte le altre finite in crisi. Ma il problema era anche un altro: quei bond destinati ai piccoli risparmiatori offrivano rendimenti molto più bassi rispetto ai pochi bond che le stesse banche vendevano agli investitori istituzionali. Per farla breve: i risparmiatori rischiavano tanto ma guadagnavano poco. Compravano vino scadente al prezzo del Barolo. I numeri, calcolati da Consultique per Il Sole 24 Ore, lo dimostrano.
Nel dicembre del 2010 la Popolare di Vicenza ha emesso un bond subordinato per risparmiatori con un rendimento del 4,60%. Eppure quello stesso identico giorno un bond sempre della popolare vicentina, destinato però a investitori professionisti, sul mercato secondario offriva un rendimento del 6,20%. Il 30 ottobre del 2013 - per fare un altro esempio - la Popolare dell’Etruria emette un bond subordinato, destinato ai risparmiatori, con un rendimento del 5%. Nello stesso periodo la ben più solida Intesa Sanpaolo emette un titolo analogo, ma destinato agli investitori istituzionali, che paga un rendimento ben più elevato: 6,75%. E di casi così ce ne sono a centinaia. Ai risparmiatori alti rischi e bassi rendimenti.
Gli anni del proibizionismo
Poi scoppiano gli scandali Etruria & C. E tutto cambia. Le banche frenano il collocamento dei propri bond alla clientela. Soprattutto i subordinati, che ormai sono appannaggio degli investitori istituzionali. Però si consente ai risparmiatori di comprare le azioni delle banche, che sono ancora più rischiose (sono capitale di rischio puro) e offrono remunerazioni oggi ben più basse. Un esempio rende l’idea. UniCredit ha emesso un titolo Tier 1 il 12 marzo con una cedola del 7,5% e a febbraio un bond subordinato Tier 2 (meno rischioso rispetto al Tier 1) che paga il 4,875%. Entrambi i titoli sono per istituzionali. Invece chi compra le azioni di UniCredit (anche i risparmiatori) ottiene un dividend yield del 2,1%.
È vero che paragonare azioni a strumenti ibridi come i bond subordinati è forzato. È vero che i risparmiatori percepiscono i bond come investimenti “sicuri”, per cui possono essere tratti in inganno dai subordinati. Ma ugualmente questo rappresenta - pur con tutte le giustificazioni tecniche del caso - un paradosso. Un nuovo eccesso, dopo quelli del passato. Forse un giorno si troverà un equilibrio, che consenta a chi ha profili di rischio adeguati di investire anche in bond subordinati come in azioni. O forse la bufera politica non si calmerà mai.
© Riproduzione riservata