Tra dazi veri e dazi minacciati, i mercati delle materie prime sono tra i principali ostaggi nelle guerre commerciali che da oltre un anno turbano l’economia globale: una centralità che aggiunge sfide ulteriori in uno scenario complesso, che già vede rallentare gli scambi internazionali e il passo della crescita. L’accentuata volatilità dei prezzi delle commodities, troppo spesso appesi agli umori delle trattative Usa-Cina, confonde le aspettative sull’inflazione.
Nel frattempo la ragnatela delle tariffe è diventata così estesa da modificare la geografia degli approvvigionamenti: merci per 165 miliardi di dollari, tra cui molte materie prime, oggi seguono rotte diverse rispetto al passato, stima uno studio del National Bureau of Economic Research (Nber), affidato a economisti di Princeton, Columbia University e Fed di New York, un fenomeno che rischia di provocare un impatto pesante – e forse duraturo – sulle supply chain del settore manifatturiero, con un sicuro aggravio dei costi.
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Imprese di tutto il mondo e di tutti i settori sono messe di fronte alla scelta ingrata tra pagare una sorta di tassa supplementare, le tariffe sulle importazioni, oppure rivolgersi nuovi fornitori. Ammesso di trovarli.
Dazi e controdazi sono sempre esistiti. Ma con Donald Trump si è fatto un salto di livello, che ha innescato una temibile reazione a catena ancora lontana dall’esaurirsi. Il presidente degli Stati Uniti ha preso di mira soprattutto la Cina, contro la quale nel 2018 ha imposto in diverse tornate dazi su quasi 283 milioni di dollari di importazioni Usa (il 12% del totale), ottenendo come ritorsione analoghe tariffe su 121 miliardi di esportazioni americane. Pechino ha colpito in modo particolarmente pesante alcune commodities chiave per l’economia Usa, come la soia e il Gas naturale liquefatto (Gnl), provocando forti scossoni di assestamento sul mercato.
La Cina – verso cui un tempo si dirigeva il 60% dell’export americano di soia – ha dimezzato gli acquisti dagli Usa nel 2018, aumentando invece del 30% le forniture dal Brasile. Washington, nel tentativo di rifarsi, ha più che raddoppiato le vendite di soia all’Europa e accelerato le spedizioni verso altre regioni dell’Asia, ma non è riuscita ad evitare del tutto il danno.
Anche il mercato dell’energia è stato scombussolato. Dopo i dazi Pechino ha quasi azzerato le importazioni di Gnl dagli Usa e – senza nemmeno bisogno di dazi – ha chiuso le porte anche al petrolio a stelle e strisce: nella prima metà del 2018 era il primo acquirente, con 376mila barili al giorno, nella seconda metà aveva ridotto l’import ad appena 83mila bg.
Washington e Pechino ora sembrano vicine a fare la pace, benché la data di un possibile accordo stia subendo continui rinvii. Ma la Cina non è l’unico bersaglio nella guerra commerciale della Casa Bianca, la più violenta – dicono gli economisti – dal periodo che precedette la Grande Depressione, quasi un secolo fa.
Fin dall’inizio, con le tariffe su acciaio e alluminio, Trump ha preso di mira il mondo intero, senza risparmare (se non temporaneamente) neppure i partner storici. E oggi le relazioni commerciali si stanno surriscaldando su molti fronti, a cominciare da quello con l’Unione europea, accusata di aiuti indebiti al settore aeronautico e minacciata con dazi per 11 miliardi di dollari sui prodotti più disparati, comprese molte eccellenze agroalimentari italiane: dal prosecco al parmigiano, passando per l’olio d’oliva e il pecorino. Nella lista di ritorsioni preparata da Bruxelles – da 20 miliardi – figurano le nocciole e molti pesci congelati, per restare nel «food», ma anche materie prime che agli Usa stanno molto più a cuore come il cotone e le materie plastiche, di cui lo shale gas ha scatenato un boom di produzione che conta proprio sull’export per far quadrare i conti.
Sui prezzi di alcuni polimeri e del cotone pesano già i dazi imposti da Pechino. A febbraio le quotazioni della fibra all’Ice erano ai minimi da un anno, anche se in seguito (in gran parte proprio sulla fiducia in un accordo Usa-Cina) si sono risollevate.
Il miraggio della pax commerciale con Pechino è stato un fattore decisivo (benché non l’unico) anche nel rilanciare il rally dei metalli industriali, che era stato interrotto dall’effetto dazi: le quotazioni di rame, alluminio e nickel erano andati a picco nella seconda metà del 2018, dopo essersi spinti pochi mesi prima a record pluriennali.
Le inquietudini per le materie prime non si sono comunque spente del tutto. A parte la contesa con la Ue, Washington – nonostante la riedizione del Nafta – continua ad avere relazioni tese anche con i vicini di casa, Canada e Messico. Con quest’ultimo anzi la contesa sui migranti si è infiammata al punto che Trump ha minacciato la chiusura totale delle frontiere: una misura che avrebbe conseguenze devastanti sul commercio, anche se in modo surreale ha fatto impazzire solo il prezzo degli avocado. Un’ulteriore conferma che per fare danni (anche imprevisti) non occorre imporre dazi e barriere commerciali. Talvolta basta evocarli.
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