Non è solo il petrolio. Anche il prezzo dei metalli industriali è andato a picco, in qualche caso accumulando ribassi analoghi a quelli del greggio. Se le quotazioni del barile hanno perso circa il 30% dal record di ottobre (ieri il Brent scambiava di nuovo sotto 60 dollari), anche il nickel e lo zinco si sono allontanati altrettanto dai massimi pluriennali di pochi mesi fa, ripiegando rispettivamente sotto 10.800 dollari e sotto 2.500 dollari per tonnellata al London Metal Exchange.
I due metalli, impiegati soprattutto in siderurgia, soffrono in modo particolare per le rinnovate tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina. I presidenti dei due Paesi dovrebbero incontrarsi questa settimana al G-20 in Argentina, ma la speranze di una tregua nella guerra dei dazi si è quasi del tutto spenta dopo che Donald Trump in un’intervista al Wall Street Journal ha detto di considerare «altamente improbabile» un accordo. Trump è tornato anzi a minacciare un aumento dei dazi dal 10 al 25% a inizio gennaio e addirittura un’estensione delle tariffe a tutte le merci esportate da Pechino.
Anche sui mercati cinesi non tira un buon vento. Non solo la borsa di Shanghai è tra le peggiori del mondo quest’anno, ma stanno crollando anche i prezzi delle materie prime: le quotazioni della vergella di acciaio –che ad agosto erano ai massimi da sette anni – sono entrate in bear market e anche il prezzo del minerale di ferro, che aveva resistito un po’ più a lungo, ora è affondato: sul mercato spot ha perso circa il 15% dall’inizio della settimana scorsa, fino a 64,75 $/tonnellata secondo le rilevazioni di S&P Global Platts.
Nickel e zinco non sono rimasti indifferenti, anche se entrambi godono di buoni fondamentali, il primo per le prospettive di consumo nelle batterie per l’auto elettrica e il secondo perché già oggi si registrano carenze di offerta: le scorte Lme sono dimezzate negli ultimi tre mesi, riducendosi ai minimi da dieci anni, e soltanto a febbraio il prezzo dello zinco era volato ai massimi dal 2007, oltre 3.500 $/tonnellata.
Alla borsa metalli londinese le vendite non stanno comunque risparmiato nessun metallo.
Il rame, considerato un buon anticipatore dello stato di salute dell’economia mondiale, ha perso il 17% da giugno (quando era ai massimi da 4 anni), chiudendo ieri a 6.121,50 $/tonnellata. L’alluminio, che si era infiammato ad aprile sull’onda delle sanzioni Usa contro Rusal, ha perso oltre il 25% dal picco e ora scambia intorno a 1.930 $/tonn, ai minimi da un anno.
Dazi e controdazi, non solo tra Usa e Cina, hanno già cominciato del resto a rallentare il commercio e la crescita globale. La frenata della Cina – un gigante nel consumo di materie prime – è sempre più evidente. Nel terzo trimestre la crescita del Pil si è ridotta al 6,5% il minimo dal 2008 e diversi indicatori segnalano in modo specifico minori consumi di metalli.
Nel settore automobilistico in Cina le immatricolazioni a ottobre sono crollate delll’11,7% e le vendite di veicoli quest’anno, minacciano di diminuire per la prima volta dal 1990. Anche l’edilizia sta rallentando il passo: a ottobre gli investimenti immobiliari sono cresciuti “solo” del 7,7%, il minimo da dieci mesi.
Quanto alle esportazioni, l’effetto dei dazi si sta facendo sentire. Quelle di acciaio in particolare sono in forte calo (-9,3% tra gennaio e ottobre), nonostante la produzione cinese negli ultimi mesi sia cresciuta a livelli da primato, raggiungendo un record storico di 82,55 milioni di tonnellate a ottobre (+14,1% su base annua).
L’eccesso di offerta – legato non solo alla contrazione dell’export, ma anche a margini di profitto a lungo elevati nell’industria siderurgica – è certamente come minimo una concausa del crollo dei prezzi sul mercato cinese.
Con il recente avvio del piano invernale antismog (benché forse un po’ più soft rispetto all’anno scorso) e con il recente crollo dei prezzi di vendita Pechino dovrebbe rallentare la produzione: i margini di profitto sui laminati a caldo sono oggi negativi in Cina per la prima volta da novembre 2015, mentre per gli acciai lunghi sono crollati di due terzi da fine ottobre, stima Jinrui Futers. Ma nonostante tutto è improbabile che il surplus di offerta venga spazzato via.
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