È allarme sulle forniture di petrolio dalla Russia dopo la completa chiusura dell’oleodotto Druzhba, che trasporta verso l’Europa oltre un milione di barili al giorno di greggio Ural: una varietà oggi particolarmente preziosa perché possiede caratteristiche simili a quelle dei barili estratti in Iran, colpiti dalle sanzioni Usa.
Mosca ha fatto sapere ieri sera che prevede di impiegare un paio di settimane per risolvere il problema, legato a una contaminazione chimica del greggio trasportato nella pipeline. Ma l’interruzione dei flussi nel frattempo potrebbe accentuare le tensioni sui mercati petroliferi.
Washington il 22 aprile ha dato un giro di vite alle sanzioni contro Teheran, annunciando che non rinnoverà le esenzioni per l’acquisto di greggio concesse a otto Paesi. Dal prossimo mese nessuno potrà quindi importare senza rischi dalla Repubblica islamica: una misura drastica, che ha sollevato proteste, ma che probabilmente solo Cina e Turchia oseranno sfidare.
Tra le migliori alternative all’Iranian Heavy secondo gli esperti di Rystad Energy ci sono i greggi sauditi (in particolare l’Arabian Light), l’iracheno Basra Light e per l’appunto l’Ural, che in gran parte raggiunge i mercati europei proprio attraverso la Druzhba.
I greggi russi, con medio-alto contenuto di zolfo, sono anche considerati adatti a sostituire forniture dal Venezuela, dove la produzione sta crollando.
L’oleodotto di epoca sovietica – il più grande del mondo, con una rete di tubi di oltre 5mila chilometri – da ieri è stato chiuso del tutto, in seguito al ritrovamento di sostanze corrosive nel petrolio trasportato. E anche se le prime forniture «pulite» potrebbero essere immesse in rete già lunedì, risolvere del tutto il problema richiederà tempi più lunghi.
L’allarme era stato dato fin dalla settimana scorsa dalla Bielorussia ma inizialmente era stato sottovalutato viste le continue recriminazioni tra Mosca e Minsk. Giovedì anche Polonia e Germania hanno denunciato problemi, portando alla chiusura dei flussi nel braccio nord della Druzhba. Da ieri lo stop è stato esteso a tutte le altre linee, che attraverso l’Ucraina si diramano verso Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Croazia.
Transneft, la società russa dei gasdotti, ha individuato l’origine della contaminazione in un deposito di stoccaggio privato. È lì che il petrolio immesso nell’oleodotto dell’Amicizia (questo il significato di Druzhba) si è mescolato con cloruri organici, sostanze che nei processi di raffinazione possono reagire creando acido cloridrico, potenzialmente molto dannoso per gli impianti.
Carichi contaminati sono stati individuati anche al porto di Ust Luga, sul Mar Baltico, mettendo a rischio un altro canale di esportazione del greggio Ural. Tutto ok invece, almeno per ora, nel vicino terminal di Primorsk e nel porto di Novorossiisk, sul Mar Nero.
Le raffinerie dell’Europa centro-settentrionale, rifornite dalla Druzhba, hanno scorte abbondanti, ma riorganizzare gli approvvigionamenti potrebbe essere difficile e costoso, se l’emergenza dovesse protrarsi più a lungo del previsto.
Il prezzo dell’Ural si è già impennato, spingendosi ai massimi storici in relazione al Brent. E il Brent stesso ha ricevuto un ulteriore impulso dalla vicenda, salendo ai massimi da sei mesi giovedì fino a un picco di 75,60 dollari al barile.
Ieri le quotazioni hanno comunque ritracciato, riportandosi intorno a 72 dollari, in parte sulla speranza di una soluzione tempestiva ai problemi della Druzhba, in parte su prese di profitto dopo i forti rialzi dei giorni scorsi e in parte per i commenti spavaldi di Donald Trump: «Ho chiamato l’Opec e le ho detto di tirar giù i prezzi, così ora la benzina costa meno», si è vantato il presidente in un incontro con la stampa alla Casa Bianca, in cui ha rivendicato meriti anche per l’«incredibile» crescita del Pil Usa, per l’inflazione contenuta e per il rally dei listini a Wall Street.
© Riproduzione riservata