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Petrolio, tutte le crisi che rischiano di riaccendere il prezzo del…

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L'Analisi |energia e geopolitica

Petrolio, tutte le crisi che rischiano di riaccendere il prezzo del barile

(Reuters)
(Reuters)

Il petrolio iraniano da ieri è off limits per le sanzioni americane, in Venezuela la tensione è alle stelle dopo il fallimento di un golpe, in Libia sono riesplosi i combattimenti – anche in prossimità del maggior giacimento El Sharara, attaccato lunedì – mentre in Russia il maxioleodotto Druzhba si è fermato per una contaminazione da sostanze corrosive: un problema destinato a protrarsi e forse ad aggravarsi se è vero, come riferiscono fonti Reuters, che Transneft, il gestore della rete russa, ha chiesto alle compagnie petrolifere di ridurre la produzione del 10% (ossia di oltre un milione di barili al giorno) fino a martedì perché non riesce a gestire le esportazioni attraverso altri canali.

Difficile immaginare un quadro più rialzista per i mercati petroliferi. Eppure negli ultimi giorni, proprio mentre questi avvenimenti si stavano dipanando, il prezzo del barile ha cominciato a scendere. Il Brent – che la settimana scorsa aveva superato 75 dollari al barile, ai massimi da sei mesi – giovedì è affondato sotto la soglia psicologica dei 70 dollari.

Le quotazioni del greggio europeo in seguito sono rimbalzate a 71 dollari, ma questa è comunque la prima settimana di ribasso dopo cinque consecutive di rally. Il Wti, che dopo il picco oltre 66 dollari ora scambia intorno a 62 dollari, è già alla seconda settimana di ribasso, una circostanza che sembra deporre a favore dell’ipotesi secondo cui a pesare sui prezzi sarebbe l’abbondanza di greggio americano.

C’è del vero. La produzione Usa – stando agli ultimi dati settimanali, meno precisi di quelli mensili – ha scalato un nuovo record, raggiungendo 12,3 milioni di barili al giorno. E le scorte oltre Oceano hanno ripreso a gonfiarsi, con un aumento addirittura di 9,9 milioni di barili nella settimana al 26 aprile, quattro volte più di quanto gli analisti avessero previsto.

Non stupisce che il mercato abbia reagito in modo brusco. Il dato tuttavia è stato soprattutto un pretesto per una correzione che era nelle carte, vista l’eccessiva esposizione rialzista accumulata dagli speculatori: con undici posizioni lunghe (in acquisto) per ogni posizione corta, i fondi si sono sbilanciati in modo analogo allo scorso autunno.

L’ondata di liquidazioni all’epoca aveva fatto crollare il petrolio da un picco di 85 dollari al barile a ottobre a 50 dollari circa a fine anno, ma ad alimentare le vendite c’era stata anche la sorpresa dei waivers, gli esoneri dalle sanzioni che gli Usa avevano accordato ai maggiori acquirenti di petrolio iraniano.

Oggi non ci sono più privilegi per nessuno: Washington è decisa ad «azzerare» le esportazioni di Teheran e anche se non riuscirà del tutto nel suo intento (Cina e Turchia potrebbero continuare a comprare), rischiano di sparire dal mercato tra 500mila e un milione di barili al giorno.

Nel frattempo sono emerse anche altre difficoltà sul fronte dell’offerta, dal collasso sempre più tragico dell’industria petrolifera venezuelana – che con le sanzioni Usa ha visto crollare l’export del 40% da febbraio, ossia di circa 400mila barili al giorno – fino al misterioso incidente della Druzhba, in cui scorrono ogni giorno oltre un milione di barili di greggio.

Potrebbero passare dei mesi prima che l’oleodotto russo torni a funzionare a pieno regime. Nel frattempo Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca hanno reagito con il rilascio di scorte strategiche di emergenza per un totale di circa 8 milioni di barili (altro fattore che ha calmierato i prezzi sul mercato petrolifero).

Come gli analisti più attenti non si stancano di ripetere il petrolio «made in Usa», per quanto copioso, non è la panacea di tutti i mali e di certo non costituisce un rimedio per emergenze di questo tipo. Lo shale oil in particolare potrà forse sostituire una parte dei condensati iraniani sul mercato (anche se la qualità non è proprio identica), ma non servirà a colmare le carenze più gravi, che riguardano greggi con caratteristiche completamente diverse.

Con il Venezuela esce di scena un grande fornitore di greggio pesante, che altrove scarseggia: Canada e Messico, i maggiori competitor, non riescono a esportare molto di più, Colombia ed Ecuador non producono abbastanza. Con l’Iran si perdono barili sour, ad alto contenuto di zolfo, simili a quelli estratti in Russia, Arabia Saudita e Iraq.

Ecco perché Donald Trump ha tanto bisogno dell’aiuto dei sauditi (e non solo di loro, ma di tutta l’Opec Plus). Ed ecco perché – anche se, come probabile, Riad vorrà collaborare – non è detto che il presidente Usa riesca a frenare a lungo le quotazioni del barile.

La diplomazia si è messa in moto. Giovedì il segretario all’Energia Usa Rick Perry ha incontrato a Londra il ministro saudita Khalid Al Falih e il direttore dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) Fatih Birol.

Lo stesso giorno il segretario generale dell’Opec, Mohammed Barkindo, era a Teheran con il ministro del Petrolio iraniano Bijan Zanganeh. Il primo ha cercato di rassicurare gli animi, affermando che l’Opec e i suoi alleati (tra cui la Russia) faranno di tutto per restare uniti e per «evitare una crisi energetica mondiale, nonostante le difficoltà di alcuni Paesi membri».

Zanganeh è stato più minaccioso: «Ho detto a Barkindo che l’Opec è messa in pericolo dall’unilateralismo di alcuni membri e che l’organizzazione rischia di dissolversi». Il riferimento è all’Arabia Saudita, che dovrà fare miracoli per destreggiarsi tra le richieste della Casa Bianca e la necessità di non lacerare ulteriormente l’Opec Plus al prossimo vertice di giugno, quando la coalizione dovrà decidere se proseguire o meno con i tagli di produzione.

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