«Se sembra un’anatra, nuota come un’anatra e starnazza come un’anatra, allora probabilmente è un’anatra» sentenzia uno dei più popolari ragionamenti induttivi coniato a suo tempo dal poeta statunitense James Whitcomb Riley e rispolverato più volte ai tempi della guerra fredda. Provate a ribaltare il ragionamento noto come “duck test”, il test dell’anatra appunto, e scoprirete probabilmente l'inganno della stragrande maggioranza dei fondi obbligazionari americani che non si comportano come indicato dal nome della categoria in cui sono classificati, e quindi altrettanto probabilmente non lo sono, pur finendo regolarmente nei portafogli di investitori che credono lo siano.
Solo il 12% dei prodotti obbligazionari Usa resiste al «test di fedeltà»
Il test che a posteriori mostra come molti dei prodotti più popolari fra i risparmiatori siano di fatto «adulterati» lo ha
condotto direttamente Morningstar, una delle principali società che classifica e fornisce giudizi su strumenti di investimento
a livello globale, basandosi appunto sulle sue categorie e sui risultati ottenuti negli ultimi 36 mesi dai fondi che ne fanno
parte. Fra gli strumenti classificati come «Intermediate Term Bond» - cioè una categoria che investe, o almeno dovrebbe farlo,
in obbligazioni Usa a medio termine (principalmente titoli di Stato) con giudizio elevato (nessun junk bond e non oltre il 10% di «Triple B»), che contiene oltre 300 prodotti e che vale 1.400 miliardi di dollari - soltanto il 12%
a conti fatti si è comportato come tale.
Il 75% ha invece avuto un andamento (inteso come performance e soprattutto volatilità) che ricorda piuttosto un fondo dedicato al credito (titoli societari e tipicamente high yield) e per il restante 13% qualcosa di ancora diverso (titoli obbligazionari, ma in euro, Abs, subprime o strumenti dei Paesi emergenti). Per la categoria «Multisector bond» i risultati sono addirittura più eclatanti perché nessuno si comporta come un fondo obbligazionario Usa, ma piuttosto come un titolo high yield o un prestito bancario (82%), un’azione (6%), i mercati emergenti (3%) o addirittura altro ancora (9%).
Il fenomeno dei fondi «adulterati», o «inquinati» che dir si voglia, passa generalmente inosservato nella maggior parte delle fasi di mercato per emergere però d'improvviso ogni volta che la situazione si fa più tesa, come nell'autunno scorso e anche nei primi giorni di questo maggio. «Dopo aver navigato attorno all’ottantanovesimo percentile della categoria per tutto il 2018 - nota Mark Brett, gestore dei portafogli obbligazionari di Capital Group - il nostro fondo che appartiene a quella categoria è balzato improvvisamente in testa alla classifica: da idioti siamo diventati geni, ma non siamo né l’uno, né l’altro, semplicemente investiamo in modo coerente con quanto indicato nel nome del prodotto».
“Si cercano a tutti i costi performance di breve periodo inserendo nei portafogli strumenti che non dovrebbero farne parte e trovarsi poi in mano fondi che non servono allo scopo difensivo per cui sono stati ideati.”
Mark Brett, Capital Group
La distorsione è in gran parte figlia dello scenario di rendimenti ridotti (o addirittura negativi, quando si guarda a una bella fetta dell’universo dei bond) che difficilmente i gestori di fondi riescono a far digerire ai propri clienti. «Per questo motivo – spiega Brett – si cercano a tutti i costi performance di breve periodo inserendo nei portafogli strumenti che non dovrebbero farne parte e alla fine ci si ritrova fra le mani uno strumento totalmente differente da un “core bund fund” e che non serve allo scopo difensivo per cui è stato ideato».
Lo spettro della crisi di 10 anni fa
Termini “famigerati” come Abs, mutui subprime, leveraged loans riporterebbero alla memoria la tempesta Lehman Brothers di 10 anni fa, ma la situazione non appare così compromessa, almeno
per il momento: «I nomi sono gli stessi, ma le strutture di questi strumenti sono migliorate dopo la crisi finanziaria, soprattutto
quando si guarda al tema del collaterale sottostante», assicura il gestore di Capital Group. Ciò non toglie però che i rischi
siano presenti, e sono evidenti soprattutto quando si considera il grado di liquidità (ridotto e in molti casi addirittura
quasi inesistente) di questi prodotti ”dopanti”. «Quando la situazione sui mercati si fa tesa diventa impossibile vendere
certi bond e il quarto trimestre del 2018 rappresenta un buon esempio di ciò che può accadere in situazioni simili», aggiunge
Brett.
Il «maquillage» di Morningstar
In Europa la situazione è per la verità differente, ma solo in parte: non vi sono statistiche accurate di Morningstar come
per i fondi made in Usa, ma il sospetto è che molte case di gestione si comportino nello stesso modo. Porre rimedio a una
situazione del genere non è semplice, almeno finché il livello dei tassi si mantiene così ridotto, e gli incidenti di percorso
come il 2018 non sono forse sufficienti a scoraggiare né gli investitori, né i gestori in cerca di guadagni facili di breve
termine. Sotto l’aspetto tecnico Morningstar ha invece cercato di metterci la classica toppa dividendo qualche settimana fa
in due la categoria: da una parte i tradizionali «Intermediate Term Core Bond», dall’altra i più aggressivi «Core-Plus». Il
primo sottoinsieme dovrebbe comprendere i fondi che investono principalmente in titoli a reddito fisso Usa investment grade, inclusi il debito governativo, societario e cartolarizzato, e detengono meno del 5% nelle esposizioni con merito di credito
più basso.
Nell’altro ci sarebbe invece spazio per chi cerca più flessibilità e tiene conto di settori non-core, quali l’high yield, i prestiti bancari, il debito dei mercati emergenti e titoli in valuta diversa dal dollaro. Non è ancora chiaro come si distribuiranno i fondi all’interno delle due nuove denominazioni, né se i risparmiatori si renderanno finalmente conto delle enormi differenze e correranno ai ripari o se invece continueranno a puntare sui prodotti più rischiosi allettati dai guadagni che propongono: l’ennesima puntata del duello infinito fra timore e avidità.
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