«Se non avessi avuto l'aiuto di Andrea Orcel di Ubs e di Alberto Nagel di Mediobanca, al Banco Popolare non saremmo mai riusciti a portare a casa l'aumento di capitale che Bce nella primavera del 2016 ci chiese in pochi giorni di far salire a un miliardo», confidò a un collaboratore l’allora amministratore delegato del Banco Popolare, Pier Francesco Saviotti. È vero che le due banche d’affari dettero sostegno in tempo reale al Banco, come tuttora confermano molti osservatori, ma è altrettanto certo anche l'opposto: se Orcel e Nagel garantirono in poche ore l'extra-aumento al Banco fu proprio perché la controparte era Saviotti, in cui avevano totale fiducia personale da anni. Eh sì, perché l'ormai anziano (77 anni) ex condottiero della Comit è banchiere a cui anche i più giovani bankers portano tuttora rispetto.
Nel mondo del business molti sono stimati, Saviotti è tra quelli che ha un quid in più. Non perché sia un “capobranco”, ma per la serietà e le capacità che ha dimostrato in quasi sessanta anni di carriera. «Tecnicamente, sui crediti è sempre stato un maestro», dicono di Saviotti i giovani “good guys” delle banche d'affari. Emblematica, si racconta nell'ambiente, una affollata riunione di alcuni anni fa sul caso Risanamento - una delle tante società immobiliari finite in crisi dopo il 2008 - che radunò i vertici delle banche creditrici: discussione animata, l'allora capo del Cib di UniCredit Sergio Ermotti si pose a capo di una certa linea sulla ristrutturazione del debito. Poi parlò Saviotti, argomentando una posizione diversa. E tutti i banker seguirono la sua posizione.
Per essere autorevoli, tra persone in buona fede, spesso conta la competenza più che l'arroganza. E a Saviotti, a detta di chi ha lavorato con lui, non mancano né la conoscenza tecnica né il buon senso. Ovunque abbia lavorato, il banchiere ha lasciato un buon ricordo di sé. Probabilmente anche per la sua principale dote umana: mai debole con i forti e forte con i deboli. L’esatto contrario della maschera dell'italiano medio creato da Alberto Sordi e purtroppo, talvolta, ancora in voga in molte aziende.
Ma che tipo è l'«hombre vertical» Pier Francesco Saviotti? Nato ad Alessandria nel giugno del 1942 (tra pochi giorni festeggerà i 77 anni), il giovane Francesco entrò come bancario alla Comit nel 1962 a soli venti anni. Il percorso fu quello che si faceva nelle grandi banche di allora: gavetta in filiale, poi funzionario, direttore di filiale e poi capo area fino ad assumere incarichi di rilievo - a chi lo meritava - nella direzione generale di Milano nella storica sede di Piazza della Scala.
Diventò direttore generale della Commerciale con Luigi Fausti presidente. Il caso, e non solo, lo trascinò al vertice nel pieno della bagarre del tentativo di fusione, voluto dalla Mediobanca di Enrico Cuccia, tra Comit e Banca di Roma. L'opposizione funzionò e la Comit di Fausti e Saviotti tentò l'aggregazione amichevole con l'UniCredit di Lucio Rondelli e del giovane Alessandro Profumo (in parallelo il Sanpaolo-Imi lanciò l'offerta sulla Banca di Roma guidata da Cesare Geronzi).
Entrambe le operazioni saltarono, anche per la netta opposizione della Banca d'Italia guidata allora da Antonio Fazio, e la grande battaglia finanziaria - inferiore per intensità solo a quella che si combatte poi nel 2005 su Bnl e AntonVeneta - lasciò sul campo molti feriti. Tra questi Saviotti che, all'epoca 57enne, fu costretto a reinventarsi un lavoro. Prima creò il fondo di private equity Equinox con Salvatore Mancuso. Poi fu chiamato da Giovanni Bazoli in Banca Intesa come direttore generale per i crediti. All’epoca comandava Corrado Passera e alla direzione corporate c'era Gaetano Micciché, due pesi massimi del credito.
L'amalgama, forse impensabile fino a poco tempo prima, funzionò perché ognuno rispettò il proprio ruolo. Ma era evidente che Saviotti, ex Comit (nel frattempo inglobata da Intesa), non giocava più in casa. E nel maggio del 2006 si reinventò diventando banchiere d'affari ed entrò - probabilmente anche su spinta dei “vecchi amici” Orcel e Profumo - in Merrill Lynch come senior advisor per l'Italia e vice chairman per l'Europa. Cariche, all'apparenza da senatore della repubblica bancaria, che invece Saviotti interpretò a modo suo, come al solito. Poche chiacchiere, nessun convegno e molto business. Senza fare la lista delle operazioni inventate, vale la pena ricordare quella di cui va più orgoglioso: l'ideazione e la costruzione del project financing che ha consentito ai suoi amici Diego Della Valle e Luca Cordero di Montezemolo di far nascere il vettore ferroviario Ntv-Italo.
È quello anche il periodo in cui tante importanti società lo chiamano come consigliere di amministrazione: da Brembo a Moncler, da Tod's all'amata Ntv fino all'amatissima Inter: «Sono orgogliosamente interista da sempre - confida agli amici - quando posso vado sempre a San Siro». Per la verità, lo stadio da anni è denominato Meazza (vecchia gloria dell'Inter) ma a Milano tutti lo chiamano tuttora San Siro e Saviotti non fa eccezione.
L'uomo, d'altronde, pur frequentando per lavoro la cosiddetta buona società, è una persona semplice e alla mano. Il prototipo del bravo bancario che, facendo tutti i gradini della gavetta interna, è diventato banchiere. Nei ristoranti, come fosse il commissario Maigret di Georges Simenon, lo potete trovare amabilmente chiedere ai camerieri come vanno le cose in famiglia. Non solo a Milano, ma anche a Verona dove ha traslocato negli ultimi otto anni diventando un punto di riferimento per tanti imprenditori veneti. La sua storia al vertice del Banco Popolare è recente e in gran parte pubblica.
Chiamato dal presidente Carlo Fratta Pasini a guidare la banca dopo i problemi di Italease, Saviotti ha tentato il rilancio proprio negli anni della grande crisi globale post 2007-2008 e, in Italia, dell'esplosione del problema degli Npl accentuati dal pressing di Bce sulle banche italiane. Con l'ex capo della Vigilanza di Francoforte Danièle Nouy i rapporti sono stati, come minimo, dialettici. E i più giovani (praticamente tutti) top banker italiani colleghi di Saviotti ricordano di aver chiesto a lui di intervenire, a nome delle banche italiane, in una riunione plenaria tra Bce e le maggiori 130 banche vigilate da Bce. «Se proprio insistete, rinfrescherò il mio inglese» disse ai banchieri italiani, partendo in una rispettosa e fiera, ma ovviamente sterile, controrequisitoria alle istanze della Vigilanza europea.
Paradossalmente, il banchiere che ha strutturalmente nel Dna il totale rispetto delle istituzioni si è trovato in più occasioni, suo malgrado e con evidente disagio, a indossare i panni del “ribelle”. Dal niet della Bankitalia di Antonio Fazio ai tempi della fusione UniCredit-Comit ai contrasti recenti con la Bce di madame Nouy, fino a qualche incomprensione con i vertici della Banca d'Italia (ma con piena stima per il neo direttore generale Fabio Panetta, per la competenza e il coraggio dimostrati in Bce). Forse è il nuovo mondo della Vigilanza bancaria, basato sempre più solo su criteri matematici e statistici, ad andare stretto a Saviotti. Così come il Maigret di Simenon soffriva i limiti all'attività di polizia giudiziaria tradizionale imposti dalle nuove regole sulle inchieste. Chissà se come il commissario francese fingeva di attendere l'ora del buon ritiro nella villetta in campagna di Meung-Sur-Loire, anche Saviotti punta al ritiro.
Agli amici dice che dalla primavera del 2020 - quando scadrà per limiti di statuto dal cda di BancoBpm - passerà più tempo possibile nel suo rifugio marittimo all'Isola d'Elba, giocando a carte in attesa che in estate arrivino figli e nipoti. «A me sembra ancora un giovanotto», dice uno degli amici con cui gioca a tennis. A quello che si sente dire in giro, e pur dopo le tante offerte di presidenza rifiutate negli ultimi tempi (CreVal e altre), per il “maestro dei crediti” dell'era Comit non è detto che sia ancora arrivato il momento di andare in pensione. Ma lui lo negherà, soprattutto alla sua signora Maigret.
© Riproduzione riservata