Il vero spettro per i mercati si chiama «Italexit». È un fantasma che conosciamo. Già durante la crisi del 2011-2012, quando lo spread toccò i suoi massimi storici, l’Italia rischiò un clamoroso ritorno alla lira. Un rischio correlato alla speculazione di mercato sulla fine della moneta unica. Una speculazione poi scongiurata dal presidente della Bce Mario Draghi che, con la sua promessa di «fare tutto il necessario per salvare l’euro», diede di fatto alla Bce poteri di prestatore di ultima istanza grazie allo strumento delle Omt (un piano che dà alla banca centrale il potere di fare acquisti potenzialmente illimitati di titoli di uno Stato che ne faccia richiesta).
Il «whatever it takes di Draghi» ha funzionato bene ma perché continui a funzionare bene è necessario che un presupposto sia rispettato: i Paesi aderenti non devono mettere in discussione l’adesione all’euro. Ciò che è successo in Italia con il governo attuale è che proprio questo presupposto è venuto a mancare perché entrambi i partiti che fanno parte della maggioranza di governo hanno sposato, in misure e tempi diversi, l’istanza dell’uscita dall’euro.
Il Movimento 5 stelle anni fa ha fatto una raccolta firme per un referendum sull’uscita dall’euro (e Di Maio ha dichiato pubblicamente che avrebbe votato sì) salvo poi accantonare l’idea. La Lega di Matteo Salvini si è espressa in maniera molto più netta sul tema e la scelta di candidare due noti esponenti no-euro come Alberto Bagnai e Claudio Borghi ne è un’ulteriore riprova.
Sebbene sul tema dell’adesione all’euro le posizioni siano drasticamente cambiate (sia Luigi Di Maio che Matteo Salvini hanno dichiarato che Italexit non è nel programma di governo) i segnali che sul tema sono stati mandati ai mercati sono estremamente ambigui. L’ultimo in ordine di tempo è rappresentato dall’idea di pagare i debiti della pubblica amministrazione con i mini-BoT, titoli di piccolo taglio equiparabili a una moneta parallela che, per ammissione del loro stesso inventore Claudio Borghi, sarebbero utili a preparare il terreno a Italexit. Ma prima dei mini-BoT c’è stato il primo contratto di governo Lega-5stelle, quello in cui si parlava di negoziare con le autorità comunitarie un percorso di uscita dalla moneta unica e si ipotizzava la cancellazione del debito acquistato dalla Bce (altra idea controversa di Borghi poi accantonata).
Ma il segnale più forte ai mercati forse è stata la scelta di Paolo Savona (il teorico del piano B per l’uscita dall’euro) per il posto di ministro dell’Economia. Una nomina su cui si consumò un durissimo scontro istituzionale con il presidente Mattarella che, proprio in ragione dei rischi finanziari ad esse correlati, arrivò a bloccarla. A Savona andò il ministero degli affari europei ma la poltrona resta vacante da quando l’economista sardo è finito a guidare la Consob. Ora per il suo posto si fa il nome di Alberto Bagnai, altro teorico di Italexit, autore del libro “Il tramonto dell’euro”...
Insomma pare proprio che Salvini e Di Maio, al netto delle dichiarazioni di facciata, non facciano altro che dare segnali di ostilità verso Bruxelles e la moneta unica. Fare i duri con l’Europa è una strategia che paga elettoralmente ed è anche un modo comodo per scaricare le responsabilità. Ma è una strategia estremamente costosa. Un costo fografato dallo spread e dai tassi di interesse del nostro debito pubblico che, come si dice in gergo, «prezzano» il rischio ridenominazione del nostro debito. Gli investitori che detengono i nostri titoli di Stato cioè richiedono una remunerazione aggiuntiva per prendersi il rischio di vederseli rimborsare in una valuta diversa dall’euro.
Ma quanto costa questa ambiguità? È possibile fare una stima senza alcuna ambizione di scientificità basandosi sulle quotazioni dei credit default swap, i derivati che assicurano un investitore sul rischio default sul debito pubblico italiano. Sui mercati infatti ci sono due cds diversi: uno copre dal rischio ridenominazione, l’altro no. Il primo ha una copertura più ampia e prezza 220 punti base, l’altro non rimborsa in caso di ridenominazione e per questo ha un valore più basso: 134. La differenza tra i due valori, 86 punti, è il prezzo del rischio Italexit. Un prezzo che vale il 39% del totale. Riparametrato agli attuali valori del differenziale Bund-BTp una fetta del genere equivale a circa 100 punti di spread. Il che, stando alle simulazioni fatte dall’Ufficio parlamentare di bilancio è come dire 12,9 miliardi di interessi in più sul triennio 2018-2020.
«Non credo che si arriverà mai a Italexit - commenta Domenico Rizzuto di DR Finance Consulting - perché non conviene a nessuno. Meno che mai alle aziende del Nord Italia che costituiscono la base elettorale di Salvini. I miniBoT sono solo una provocazione per alzare la posta nella trattativa con Bruxelles. Alzare i toni è solo una strategia negoziale». Una strategia molto costosa per il Tesoro che vede la spesa per interessi crescere sempre di più erodendo lo spazio fiscale di manovra. «I nostri partner dell’Eurozona stanno facendo risparmi importanti sulla spesa per interessi grazie ai tassi negativi e possono fare investimenti. Noi non ce lo possiamo permettere».
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